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L’animazione che canta: Sing,Oceania, Trolls e Rock Dog a confronto (Continua)

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Con Rock Dog e Sing, seppur completamente diversi tra loro, gli autori entrano nel territorio ormai confortevole del talent show.

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La prima pellicola, coproduzione cino-americana diretta da Ash Brannon e basato su una graphic novel di Zheng Jun Tibetan Dog, appartiene al filone dei romanzi di formazione applicati a personaggi animali antropomorfi, in cui l’avventura del protagonista ha il sapore di un percorso squisitamente individuale seppur mai individualista. Come nella migliore tradizione disneyana infatti ha un alter ego buffo, grottesco   e ben conscio del suo ruolo di spalla nonostante gli eccessi superomistici. La tradizione antropomorfa dell’applicazione dell’animalità ai caratteri attribuisce tenacia e fedeltà al pastore tibetano, giovane e sognatore, capace di comporre melodie dalla facile presa e immerso quasi suo malgrado in un mondo di luci stroboscopiche e spiazzanti, una metropoli orientale ipermoderna in cui potremmo facilmente riconoscere Shangai, Honk Hong e anche tratti di Tokyo. L’amico produttore è invece un gatto, a suo modo “sognatore” ma con tratti di cinismo e opportunismo più accentuati.  L’adolescente aspirante rock-star si contrappone al sogno di tranquillità e continuità portato avanti da suo padre, che come la specie suggerisce è un mandriano di pecore. Anche questa volta la versione italiana si affida a voci note nel doppiaggio e nella resa dei pezzi originali, pur arricchendosi nella colonna sonora non originale di brani non troppo inflazionati nel genere animazione. L’inclinazione “rock” del giovane Bodi si esprime forse maggiormente attraverso brani celebri dei Foo Fighters e persino dei Radiohead, più che nelle creazioni originali.

Con Sing di Garth Jennings, uscito anch’esso nel 2016 (per la Illumination), si abbandonano i luoghi esotici di Rock Dog, la pennellata cupa delle montagne tibetane contrapposta alla luminosità della grande città e si abbandona anche il rock in senso stretto. L’ambiente è più “usuale”, ma non per un film d’animazione: viene ritratta un’immensa Los Angeles, fatta di palme e viali alberati in zone di lusso ma anche di quartieri modesti, di sordidi anfratti e fascinosi teatri in decadenza. Ogni luogo mostrato è volto ad introdurre e ad esplicitare vizi, virtù e tratti genuini dei personaggi coinvolti in quello che ha l’ambizione di essere un film corale.

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Il repertorio torna ad essere essenzialmente pop, senza eccessive punte di trash – qualcosa resta: si pensi all’ammiccante esibizione delle “conigliette” e a quanto la mancata traduzione giovi in fondo ad una maggiore fruibilità da parte del pubblico infantile. Dopo un’introduzione sui vari personaggi coinvolti e sull’idea che il protagonista trova per risollevarsi dalla bancarotta, il cuore del film sembra risiedere nelle numerose esibizioni dei protagonisti per il provino, tagliuzzate e montate freneticamente frustrando in modo sapiente l’eventuale affezione di chi guarda. Anche in questo caso la natura ferina risolleva le sorti del film costruendo una simulazione di casting che è un’alternativa gustosa a quelli originali. Infatti, se nel talent-reality di personaggi in carne ed ossa si ricerca spasmodicamente la risata mettendo all’indice i difetti degli “scrutinati”e  facendo anche leva su una reale disabilità canora, qui le caratteristiche fisiche degli animali rincorrono la gag senza però risultare squalificanti nei confronti del loro pur manipolato desiderio di esibirsi:  il bravo cantante giraffa viene allora “eliminato” solo per la fretta di Buster che non riesce a comunicare per via del suo lunghissimo collo, le rane si autosabotano per battibecchi emotivi, le veloci scoiattoline che parlano e comprendono solo il giapponese si dimostrano inaspettatamente tenaci.

Fuori dal contest i calamari danzanti, coreografi e insieme luminarie viventi dell’ambizioso progetto finale che regala momenti suggestivi e onirici alla pellicola, altrimenti trainata da una rappresentazione “terrena”.

Il koala Buster Moon è una figura che in parte potrebbe richiamare il gatto – produttore- musicista di Rock Dog ma più complessa, con un buon mix di cinismo e ingenuità. Lo domina un sogno d’infanzia dei più ricorrenti: onorare la memoria di suo padre riportando in auge il suo vecchio teatro.

Riempiono la scena i sospiri adolescenziali, declinati in varie accezioni: il gorilla Johnny è figlio di un malavitoso (e in molti hanno storto il naso per questa associazione) ma pensa solo a cantare, e sua è l’esibizione sulle note di Elton John; la timida elefantessa Meena possiede una voce angelica e cristallina che più volte le resta strozzata in gola, come vuole il più frequente dei cliché riguardo alla ragazza comune – leggi ; grassottella – che vuole “farcela”, supportata da una famiglia invadente e più che allargata che fa quasi traboccare lo schermo. E infine c’è Ash, l’istrice che canta in duo con un fidanzato presuntuoso che non viene scelto, rabbiosa e “riot girl” quanto basta per bilanciare la zuccherosità dei pezzi che vorrebbero affidarle, nel cui timbro arrochito si potrà riconoscere Scarlett Johansson (che ha pubblicato alcuni dischi all’apice della sua carriera da attrice). Il “talent” è però più variegato, e se l’impeto giovanile sembra trainante interessante è il tentativo di coinvolgere altre fasce d’età, di varia provenienza sociale e necessariamente etichettate anche dalla specie. La scrofa Rosita, con i suoi 25 chiassosi maialini, è una parodia efficace di un trito e asfissiante menage coniugale stereotipato ma ancora presente nelle grandi città e radicato in molte culture, in cui la parte femminile sopporta la routine, la fatica dei lavori domestici e soprattutto il silenzio assordante di un marito assente. Il suo numero con Gunther,maiale obeso ed effeminato, con la rivisitazione parziale delle liriche di un famoso pezzo di Taylor Swift,  le permetterà di riappropriarsi di quella parte sopita di se stessa, delle sue pulsioni e della sua identità annullata dal non-sguardo degli altri. Il topo Mike è un sassofonista e cantante fallito, dalle suadenti movenze da crooner anni ’50 – la sua canzone finale è, ovviamente, il testamento musicale di sinatra My Way – la cui aggressività verbale tradisce i trascorsi di una vita da strada. La criminalità più o meno organizzata e gli equivoci finiranno per distruggere in parte i sogni di gloria di Moon.

Il finale vedrà ricombaciare tutti i pezzi del mosaico in modo più o meno scontato, fondendo in modo conciliante e vagamente confuso aspettative di adulti e bambini. Mirabolante, sfarzoso e più complesso di a quanto sembri, Sing sembra operare così la fusione tra i due mondi dell’intrattenimento, con la sua ricerca di una godibilità semplice ma non semplicistica, il suo gusto per le allusioni e i dopi sensi, non necessariamente di natura sessuale o “scadenti” in un umorismo becero pur facendo leva su istinti e reazioni ferine, avvicinandosi in tal senso alla multi-animalità di Zootropolis. Resta, in fondo, quel senso da sovraccarico di emozioni e di citazioni, difficili da amalgamare e astringenti abbastanza da non lasciare al film una traccia originale, un’anima indipendente e una nuova interpretazione del concetto di colonna sonora.

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L’animazione che canta: Sing,Oceania, Trolls e Rock Dog a confronto

Nel primo Shrek (2001) la colonna sonora stessa nonché l’abbondare di momenti romanticamente “spezzati” irridevano la petulante – eppure altamente iconica – tradizione Disney di accompagnare ogni momento cruciale della narrazione con un commento musicale. Eppure il ricorso a temi aspiranti ad un posto nell’immaginario collettivo non sembra aver risparmiato nessuna delle grandi case di distribuzione di lungometraggi animati, pur con modalità differenti.

L’annata cinematografica 2016-17, non ancora conclusasi, ha visto alternarsi moltissimi titoli pronti a competere tra loro sul mercato dell’animazione. Come il già citato Shrek insegnava, la sfida maggiore non riguarda più il più o meno forzoso “trascinamento” di infanti nelle sale, quanto una tacita e rinnovata complicità degli adulti accompagnatori, immaginati non più come mere appendici robotizzate e riluttanti quanto come possibili interlocutori del discorso cinematografico. Genitori più attenti, o forse solo più preoccupati, da intrattenere con la promessa di un accennato rovello morale o più semplicemente con frammenti di uno spezzettato sogno proibito: il ritorno all’infanzia, mescolato con sprazzi di mode adolescenziali e “cheap thrills” musicali dal sapore vintage. Ed è forse proprio uno tra i titoli più recenti ad incarnare al meglio questo bizzarro connubio di generi ed aspettative: Sing di Garth Jennings prodotto dalla Illumination (costola della Universal che aprì i battenti nel 2010 con il celebre Cattivissimo me),  casa produttrice anche del recente Pets, colonizza occhi e orecchie per una manciata di secondi e sembra portare l’ibridazione tra fasce di riferimento oltre ogni aspettativa. Ma del film, per mere questioni cronologiche, parleremo più avanti.

Siamo oltre la perenne sfida distributiva tra i colossi Pixar e Dreamworks, dominanti per molti anni. A riguardo scrivono in molti: se la (Disney) Pixar costruisce il film partendo dalle trame e dall’idea di fondo (un romanzo di formazione, un viaggio, una trasformazione) , ben diverso è il caso della Dreamworks, che invece crea prima personaggi che “funzionano”per poi costruire intorno a loro la storia.

Non è ben chiaro quale sia l’approccio da seguire: se l’appoggiarsi ad uno o più personaggi portanti potrebbe far pensare ad una maggiore introspezione, si deve constatare che nella maggior parte dei casi l’idea di personaggio si fonda soprattutto sul disegno grafico, lo schizzo, la “figura”, che riesce a prendere corpo letteralmente solo con l’approfondirsi della trama. D’altra parte, sebbene la penuria di storie e l’incapacità in costante aumento di raccontarle possano rifugiarsi apparentemente nel mondo Pixar, talvolta l’accuratezza nel costruire il plot della casa rivela alcuni schematismi di fondo. Se la Pixar ricerca l’universale la Dreamworks ricorre piuttosto ad una serie di particolari accumulati e accumulabili, tesi a soddisfare la sete di esperienza audiovisiva degli spettatori e a cementare il legame generazionale annullando le distanze.

Ogni fiaba può essere narrata ricorrendo  a diversi piani di lettura: storie stratificate, anche solo superficialmente o ad livello più profondo, in cui il sensazionale del disegno e del tormentone onomatopeico uniti alla semplicità del racconto convincono i piccoli, mentre il doppio fondo (o doppio senso) delle battute ammicca ai grandi. Pare essere, in tal caso, emblematico anche il ricorso a dirompenti elementi della realtà trasfigurata in un mondo a misura d’animale, di giocattolo o di creatura, in cui a contare sembra essere la perizia descrittiva dei caratteri e delle manie dei protagonisti, in fondo così “umani” (come accade ai piccolissimi e basici Minions e agli animali domestici di Pets).

La sfida poggia però anche sulla capacità di creare un immaginario sonoro, assunto di fondamentale importanza nelle produzioni rivolte al mondo dell’infanzia e oltre. Tralasciando la questione annosa del doppiaggio dei dialoghi – che da molti anni ormai insegue un filone dagli esiti discutibili, sebbene forse non troppo avvertiti dal pubblico, di cui si parlerà poi – la canzone accompagna da sempre il percorso dei personaggi animati. Se nell’universo “non Disney” a dominare sembra essere il riferimento a sonorità preesistenti in grado di creare affezione con il pubblico che guarda nei Disney – Pixar prevale la costruzione di un percorso musicale originale, con canzoni che dovranno imporsi alle orecchie del grande pubblico grazie all’interconnessione con le storie. È vero anche nel caso di Oceania, dove la musica è il mezzo per raccontare una vicenda ben definita e apparentemente senza origine letteraria (come accadeva in The Brave). Dunque il romanzo di formazione e le tematiche pre-adolescenziali si fondono allo scenario esotico dipinto minuziosamente e all’iconica espressività dei caratteri e delle movenze, ma ad aprire il vero varco attraverso le acque infuriate è l’orchestrazione del pezzo intimista affidato a Moana /Vaiana, l’espressione vocale in crescendo che ribadisce l’innata concordanza tra voce e grazia, tra suono e natura. Una grazia in fieri, ancora grezza, come testimoni anche la scelta di affidare il personaggio – cantante ad una voce adolescenziale nel film (Auli Cravalho) e la promozione del pezzo How far I’ll go alla vocalità acerba di Alessia Cara, lontanissima dall’impostazione di Idina Menzel in Frozen.

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Lontani dal territorio Pixar e dall’ingenuo sbocciare delle sue protagoniste – la cui forza sembra modellata sulla quasi dimenticata capostipite Mulan, la prima vera principessa ribelle classe 1998 – ci si avventura, come già detto, nel noto. La fiaba dalle tinte gotiche di Trolls (DreamWorks, regia di Mike Michtell e Walt Dohmriprende, nonostante la fascinosa ambientazione e il tratto retrò nella rappresentazione del mondo dei mostri – i tragicomici Bergen – in particolare, molti pezzi “classici” degli anni ’70 – ’80, epoca in cui imperversavano i pupazzi dalle chiome fluo creati da Thomas Dam. Il cantare, riconoscibile, ritmato ed empatico non è più il doveroso ed extradiegetico accompagnamento per i pensieri dei protagonisti. Le feste cantate ed il musical della vita stessa sono un’azione reiterata e conclamata per la protagonista Poppy (doppiata dall’attrice e cantante Anna Kendrick, nota per Pitch Black ovvero l’High School Musical universitario), che salvo sporadiche invenzioni degli autori della colonna sonora esplora successi transgenerazionali. Ecco allora che le parole di True Color e di The sound of silence assumono nuove sfumature per chi ascolta, quasi come se le scene del film fossero state plasmate su strofe e liriche di successi pop assemblati con estrema efficacia. Oltre all’abbondanza di titoli – riconoscibili dagli adulti più che dai bambini – non finiscono i legami con il mondo musicale. Il protagonista maschile è doppiato da Justin Timberlake, che presta la sua Can’t Stop the feeling (tr ai pezzi più recenti), mentre la coprotagonista è affidata nel canto e nei dialoghi all’eclettica Zoeey Deshanel (mentre si “sdoppia” nella versione italiana). Non appare quindi troppo insensata la scelta di far impersonare Poppy e Branch alla notissima Elisa e al semi esordiente Bernabei, reduce da talent.

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In Trolls la musica più o meno contemporanea incontra l’universo favolistico e stempera in un universo di colori “shocking” il vago sentore sinistro della trama  (la lotta per la sopravvivenza dei trolls e la paura onnipresente di essere divorati dai propri nemici).

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Stelle sulla Terra

Il cinema a scuola, per la scuola o sulla scuola. Come potremo definire un film come Taare Zameen Par trascendendo il semplice valore cinematografico?  È certamente un possibile oggetto educativo, perché parla di scuola, di infanzia, di famiglie e soprattutto affronta un tema quasi sconosciuto alla cinematografia internazionale, quello della dislessia (Piccola parentesi: la legge sui disturbi specifici dell’apprendimento in Italia è arrivata tardi, solo nel 2010, gettando nel panico alcuni insegnanti e molti genitori, sostenitori del mantra “è solo una moda”). Il film indiano pone però gli adulti che guardano di fronte a più di un interrogativo: un film che espone in modo chiaro un problema e che propone una lettura “giusta” per esso, dovutamente emotiva, è necessariamente un film di qualità? E se non lo è del tutto fino a che punto possiamo abdicare alle nostre convinzioni e/o sensazioni estetiche e formali per proporlo come punto di partenza per una riflessione?

Stelle sulla terra nasce da un’industria, quella di Bollywood, che ancora oggi prospera e non troppo raramente si apre al giudizio del mondo. Se ne ravvisano, fin dalle prime scene, i dettami stilistici, pur calati in un ambiente modesto: una famiglia che potremmo definire “piccolo borghese”  – non si fa riferimento a caste o ad eventuali punizioni divine, probabilmente per assicurare al film anche un riscontro internazionale – vive nella più classica delle abitazioni, pur moderna, il più classico dei menage familiari. Il legame sentimentale tra i genitori emerge appena per lasciar spazio alle impressioni sul volto paterno, quelle di un “padre-padrone” che non accetta devianze o ostacoli. Abiti tradizionali, scuola privata, un pizzico di documentarismo che accompagna la prima parte del film e che si sfalda strada facendo. Nelle aule dove studia il piccolo Ishaan, di 8 anni, non c’è spazio per la creatività e l’iniziativa dei discenti, e i maestri assumono le sembianze di creature mitologiche che da noi sopravvivono a stento, magari in qualche liceo classico dalla “grande storia” o più probabilmente in qualche foto ingiallita degli anni ’50. Ishaan non riesce a leggere correttamente e a fare dei semplici calcoli e ciò è considerato dagli insegnanti molto preoccupante. In aggiunta, non gli vengono successi neppure negli ambiti in cui sembra eccellere, per esempio quando utilizza le proprie parole per fornire l’interpretazione di una poesia. Un giorno, al limite della frustrazione, scappa da scuola accompagnato da un commento musicale adeguato, sfiorando con gli occhi tutte le bellezze e le peculiarità della sua città, una città indiana. Quando però i genitori lo vengono a sapere e chiedono delucidazioni apprendono, con dolore, che il loro bambino ha delle difficoltà insormontabili, che lo costringeranno a studiare in un collegio. Al suo interno non troverà molte differenze con la vecchia scuola, fino a che un professore – mago – attore (la star Aamir Khan, qui mattatore efficace e regista) non arriverà con la sua dirompente carica di energia, mista ovviamente alla capacità di comprendere ogni rivolo della psiche infantile.

L’alienazione di Ishaan è resa, inizialmente, da soluzioni animate coloratissime, che lo portano a immaginare un mondo di astronavi e alieni con cui aggirare il giogo delle lettere e dei numeri. L’adulto positivo irrompe nell’immaginario di un gruppo classe annoiato ed emotivamente compresso (anche questo ben lontano da quanto si può osservare nelle nostre aule)presentandosi come deus ex machina, e fondendo l’istanza pedagogica di sottofondo al ben più preponderante stratagemma classico del cinema b-hollywoodiano. Si staglia sul resto dei personaggi come una sorta di supereroe, consolidando tra l’altro la discutibile e diffusa credenza delle potenzialità dell’uno contro tutti, del missionario che sbaraglia le barriere asfittiche di una società chiusa ermeticamente ai desideri dell’infanzia con la sola forza del cuore. I cenni alla metodologia utilizzata dal maestro per combattere gli ostacoli del bambino dislessico sono rari (si accenna al fatto che l’uomo sia a sua volta dislessico) per lo più confusi in un montaggio ben finalizzato che celebra una delle grandi protagoniste dell’opera bollywoodiana: la musica.

Onnipresente, di commento o a tratti semi-diegetica, la canzone indiana moderna sottolinea ogni snodo della storia con la consueta forza, lasciando solo in parte ai margini l’elemento coreografico e risultando il tratto più autentico e forse più riuscito della pellicola.

Al contrario del maestro Ram, gli alti adulti del film stazionano tra la macchietta e il tragico, resi anche pittoricamente dalle prime opere di Ishaan, che si scoprirà essere un talento dal ricco immaginario visivo. Stelle sulla terra si apre dunque, con la sua durata dilatatissima per i tempi occidentali, alla discussione e alla riflessione di  adulti e ragazzi, ma rimane il più delle volte invischiato negli stereotipi sulla società e sull’infanzia offerta dalla cinematografia globalizzata e commerciale, respingendo lo spettatore restio a confrontarsi con essa.

Titolo originale: Taare Zameen Par

Regia: Amir Kaan

Interpreti principali: Darsheel Rafaely, Amir Kaan

Paese di produzione: india

Durata: 165 minuti

Anno:2007

Musiche: Shankar Mahadevan

Rating: dai 6/7 anni 

(pubblicato su filmtv.it)