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Red

La pubertà incontra la storia familiare attraverso rituali magici ed esplosive riflessioni

Titolo originaleTurning Red
Lingua originaleinglese
Paese di produzioneStati Uniti d’America
Anno2022
Durata99 min
Genereanimazionefantasticocommediaavventura
RegiaDomee Shi
SceneggiaturaDomee Shi, Julia Cho
ProduttoreLindsey Collins
Produttore esecutivoPete Docter
Casa di produzionePixar Animation StudiosWalt Disney Pictures
Distribuzione Disney+
MusicheSceneggiatura

In molti storcono il naso di fronte ai riadattamenti Pixar e Disney di questi ed altri decenni. La magia della fiaba trasfigurata, per necessità o per marketing, verrebbe spezzata dall’evidente linearità del protagonista e della sua mancata evoluzione rispetto ad un progetto di vita- Progetto che non mancava ad eroine ed eroi del passato millennio, pur nel tradimento adattativo. Chi era e chi sarà la Mulan, così diversa da quella della leggenda, o meglio: sarà chi è sempre stata o cambierà, come nei più classici coming of age. La Pixar, come spesso accade, non si affida alla fiaba né alla saudade per un tempo lontano mai realmente esistito ma dopo un rinnovato interesse nei confronti delle proprie produzioni si cala nella realtà del passato individuale di una dei suoi autori. Un passato non glorioso, affiancato ad una rievocazione storica recente da riscattare, ravvivandola però con l’ironia già radicata in molte pellicole. La regista sino canadese torna indietro di 20 anni, a quel 2002 in cui le preadolescenti grattavano goffamente la patina delle convenzioni, le abbracciavano e riemergevano dall’abisso con abiti sgargianti e improponibili. Si riappropria dell’estetica da polaroid e dell’ovattata era musicale  delle boyband, segnale di allarme nel passaggio all’adolescenza piena e feticcio da cui discostarsi gradualmente di fronte all’imminente ascesa del primo, vero e carnale interesse amoroso. La protagonista Mei Lin si presenta con una struttura disegnata con linee morbide, un abbigliamento volutamente antiquato rispetto a quello delle sue coetanee – persino rispetto a quello delle sue amiche, come lei “outsider” – e un’energia emotiva incontenibile che esplode al contatto con le rigide tradizioni di famiglia. Si muove al ritmo sincopato delle occidentalissime sonorità R’n’B di fine anni ‘90 – inizio 2000 ma allo stesso tempo risente di quelle trasformazioni psico-fisiche stilizzate care, forse, all’immaginario di anime e manga. Stelline negli occhi, flussi ed effetti fumosi che arricciano, allungano, cancellano il naso e allo stesso tempo scavano nei terreni più scivolosi dell’imbarazzo, nell’egoismo insito nella necessità di autoaffermazione e nelle piccole meschinità quotidiane.

Meilin con i capelli neri, prima della trasformazione in panda rosso

La storia di Meilin è soltanto sua, così personale e peculiare da tratteggiare con precisione un’età e la sua collocazione all’interno di un bizzarro e onirico rituale di famiglia. Il tenero ed enorme panda rosso in cui si trasforma rievoca, nel colore e nell’espressione, tuta una serie di rimandi scontati e più sottili, psicologici e storici. La rabbia e la seguente rassegnazione, non trovando pace, assumono le sembianze cartoonesche ed infiammate tanto vicine al piccolo personaggio di Inside Out, superandone la caratterizzazione. La deflagrazione e successiva riconciliazione passeranno allora per un’affastellamento peloso che comprime l’inquadratura, fattasi cupa. Il personaggio ha bisogno di crescere, ma non lo farà attraverso il tipico romanzo di formazione poiché cercherà di adattarsi al mondo ma, allo stesso tempo, di costruire per sé un angolo speciale e diverso da qualunque altro. La sottile carttiveria. I cedimenti e le altalene “ormonali” di una ragazza come le altre riescono allora a suggerire e a dipingere un essere umano del tutto originale, scontrandosi con il mondo alieno e allo stesso tempo conformista al suo interno rappresentato dalla madre.

Turning red racconta il cambiamento obbligato dell’adolescenza con toni apparentemente leggeri pur rivelando, a tratti, l’essenza turbolenta e fortemente drammatica dello stesso, suggerendo, senza alcun appesantimento didascalico, l’inusitata forza regressiva della repressione e la difficoltà della comunità di origine cinese nel difficile percorso ibrido tra “mantenimento” ed inclusione. Allo stesso tempo percorre una strada di disvelamento della psiche femminile in formazione, suggerendo con immagini giocose il flusso dei pensieri e l’affacciarsi simultaneo di sentimenti e descrivendo le contraddizioni dei primi veri legami tra ragazze. Con Red Domee-shi sembra sviluppare in forma narrativa e compiuta il piccolo e poetico corto “Bao”, in cui l’amore materno passava attraverso una bizzarra rivisitazione culinaria ed un inquietante istinto cannibalesco, simbolo della norma genitoriale che, incapace di autonormarsi, fagocita letteralmente i propri figli.

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L’animazione che canta: Sing,Oceania, Trolls e Rock Dog a confronto

Nel primo Shrek (2001) la colonna sonora stessa nonché l’abbondare di momenti romanticamente “spezzati” irridevano la petulante – eppure altamente iconica – tradizione Disney di accompagnare ogni momento cruciale della narrazione con un commento musicale. Eppure il ricorso a temi aspiranti ad un posto nell’immaginario collettivo non sembra aver risparmiato nessuna delle grandi case di distribuzione di lungometraggi animati, pur con modalità differenti.

L’annata cinematografica 2016-17, non ancora conclusasi, ha visto alternarsi moltissimi titoli pronti a competere tra loro sul mercato dell’animazione. Come il già citato Shrek insegnava, la sfida maggiore non riguarda più il più o meno forzoso “trascinamento” di infanti nelle sale, quanto una tacita e rinnovata complicità degli adulti accompagnatori, immaginati non più come mere appendici robotizzate e riluttanti quanto come possibili interlocutori del discorso cinematografico. Genitori più attenti, o forse solo più preoccupati, da intrattenere con la promessa di un accennato rovello morale o più semplicemente con frammenti di uno spezzettato sogno proibito: il ritorno all’infanzia, mescolato con sprazzi di mode adolescenziali e “cheap thrills” musicali dal sapore vintage. Ed è forse proprio uno tra i titoli più recenti ad incarnare al meglio questo bizzarro connubio di generi ed aspettative: Sing di Garth Jennings prodotto dalla Illumination (costola della Universal che aprì i battenti nel 2010 con il celebre Cattivissimo me),  casa produttrice anche del recente Pets, colonizza occhi e orecchie per una manciata di secondi e sembra portare l’ibridazione tra fasce di riferimento oltre ogni aspettativa. Ma del film, per mere questioni cronologiche, parleremo più avanti.

Siamo oltre la perenne sfida distributiva tra i colossi Pixar e Dreamworks, dominanti per molti anni. A riguardo scrivono in molti: se la (Disney) Pixar costruisce il film partendo dalle trame e dall’idea di fondo (un romanzo di formazione, un viaggio, una trasformazione) , ben diverso è il caso della Dreamworks, che invece crea prima personaggi che “funzionano”per poi costruire intorno a loro la storia.

Non è ben chiaro quale sia l’approccio da seguire: se l’appoggiarsi ad uno o più personaggi portanti potrebbe far pensare ad una maggiore introspezione, si deve constatare che nella maggior parte dei casi l’idea di personaggio si fonda soprattutto sul disegno grafico, lo schizzo, la “figura”, che riesce a prendere corpo letteralmente solo con l’approfondirsi della trama. D’altra parte, sebbene la penuria di storie e l’incapacità in costante aumento di raccontarle possano rifugiarsi apparentemente nel mondo Pixar, talvolta l’accuratezza nel costruire il plot della casa rivela alcuni schematismi di fondo. Se la Pixar ricerca l’universale la Dreamworks ricorre piuttosto ad una serie di particolari accumulati e accumulabili, tesi a soddisfare la sete di esperienza audiovisiva degli spettatori e a cementare il legame generazionale annullando le distanze.

Ogni fiaba può essere narrata ricorrendo  a diversi piani di lettura: storie stratificate, anche solo superficialmente o ad livello più profondo, in cui il sensazionale del disegno e del tormentone onomatopeico uniti alla semplicità del racconto convincono i piccoli, mentre il doppio fondo (o doppio senso) delle battute ammicca ai grandi. Pare essere, in tal caso, emblematico anche il ricorso a dirompenti elementi della realtà trasfigurata in un mondo a misura d’animale, di giocattolo o di creatura, in cui a contare sembra essere la perizia descrittiva dei caratteri e delle manie dei protagonisti, in fondo così “umani” (come accade ai piccolissimi e basici Minions e agli animali domestici di Pets).

La sfida poggia però anche sulla capacità di creare un immaginario sonoro, assunto di fondamentale importanza nelle produzioni rivolte al mondo dell’infanzia e oltre. Tralasciando la questione annosa del doppiaggio dei dialoghi – che da molti anni ormai insegue un filone dagli esiti discutibili, sebbene forse non troppo avvertiti dal pubblico, di cui si parlerà poi – la canzone accompagna da sempre il percorso dei personaggi animati. Se nell’universo “non Disney” a dominare sembra essere il riferimento a sonorità preesistenti in grado di creare affezione con il pubblico che guarda nei Disney – Pixar prevale la costruzione di un percorso musicale originale, con canzoni che dovranno imporsi alle orecchie del grande pubblico grazie all’interconnessione con le storie. È vero anche nel caso di Oceania, dove la musica è il mezzo per raccontare una vicenda ben definita e apparentemente senza origine letteraria (come accadeva in The Brave). Dunque il romanzo di formazione e le tematiche pre-adolescenziali si fondono allo scenario esotico dipinto minuziosamente e all’iconica espressività dei caratteri e delle movenze, ma ad aprire il vero varco attraverso le acque infuriate è l’orchestrazione del pezzo intimista affidato a Moana /Vaiana, l’espressione vocale in crescendo che ribadisce l’innata concordanza tra voce e grazia, tra suono e natura. Una grazia in fieri, ancora grezza, come testimoni anche la scelta di affidare il personaggio – cantante ad una voce adolescenziale nel film (Auli Cravalho) e la promozione del pezzo How far I’ll go alla vocalità acerba di Alessia Cara, lontanissima dall’impostazione di Idina Menzel in Frozen.

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Lontani dal territorio Pixar e dall’ingenuo sbocciare delle sue protagoniste – la cui forza sembra modellata sulla quasi dimenticata capostipite Mulan, la prima vera principessa ribelle classe 1998 – ci si avventura, come già detto, nel noto. La fiaba dalle tinte gotiche di Trolls (DreamWorks, regia di Mike Michtell e Walt Dohmriprende, nonostante la fascinosa ambientazione e il tratto retrò nella rappresentazione del mondo dei mostri – i tragicomici Bergen – in particolare, molti pezzi “classici” degli anni ’70 – ’80, epoca in cui imperversavano i pupazzi dalle chiome fluo creati da Thomas Dam. Il cantare, riconoscibile, ritmato ed empatico non è più il doveroso ed extradiegetico accompagnamento per i pensieri dei protagonisti. Le feste cantate ed il musical della vita stessa sono un’azione reiterata e conclamata per la protagonista Poppy (doppiata dall’attrice e cantante Anna Kendrick, nota per Pitch Black ovvero l’High School Musical universitario), che salvo sporadiche invenzioni degli autori della colonna sonora esplora successi transgenerazionali. Ecco allora che le parole di True Color e di The sound of silence assumono nuove sfumature per chi ascolta, quasi come se le scene del film fossero state plasmate su strofe e liriche di successi pop assemblati con estrema efficacia. Oltre all’abbondanza di titoli – riconoscibili dagli adulti più che dai bambini – non finiscono i legami con il mondo musicale. Il protagonista maschile è doppiato da Justin Timberlake, che presta la sua Can’t Stop the feeling (tr ai pezzi più recenti), mentre la coprotagonista è affidata nel canto e nei dialoghi all’eclettica Zoeey Deshanel (mentre si “sdoppia” nella versione italiana). Non appare quindi troppo insensata la scelta di far impersonare Poppy e Branch alla notissima Elisa e al semi esordiente Bernabei, reduce da talent.

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In Trolls la musica più o meno contemporanea incontra l’universo favolistico e stempera in un universo di colori “shocking” il vago sentore sinistro della trama  (la lotta per la sopravvivenza dei trolls e la paura onnipresente di essere divorati dai propri nemici).

(Continua)

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The Brave (parte 2)

La scarnificazione del corpo appare quasi come un mezzo necessario per gli autori a far emergere l’anima del personaggio, una forza che viaggia infrangendo ogni ostacolo. Pur legata ad una tradizione lontanissima di magia ancestrale l’iperattiva figura di Merida appare come una freccia scagliata contro il destino ed i destini tutti, un modo inconsueto di convivere con la natura – esaltata, e quasi fotografica, è quella del paesaggio scozzese, verde e mai accogliente, quanto piuttosto impervio. La ragazza è descritta come un’emanazione ella volontà e del libero arbitrio, che vince contro tutto in un’estremizzazione delle potenzialità personali forse necessaria nel rivolgersi alla fascia di pubblico infantile. Se la natura femminile e giovanile non è univoca e non è opposta al maschile, come traspare dalla forza fisica e dall’abilità di arciera e cavallerizza della protagonista, la trama provvede però ad arricchire questa storia personale di iniziazione attraverso l’incontro con altre nature, incalzanti  sotto forma di ostacoli.

Gli ostacoli sono rappresentati, in primo luogo, dalla madre, figura canonica nella quale dominano i movimenti ampollosi e tonalità brune. Lo scontro con la madre sembra aderire a vecchi tòpos letterari con una schematicità fin troppo evidente, ma la novità quasi spiazzante nel microcosmo Disney  – che attinge molto spesso da fiabe celebri e secolari, pur modificandole – risiede proprio nella presenza viva e tangibile di Elinor. Elinor non è morta in circostanze tragiche lasciando sua figlia ad un mondo di padri assenti e matrigne crudeli, né però è una placida e inverosimilmente amorevole figura sullo sfondo, pronta a dispensare carezze e timidi consigli. La sua trasformazione fisica la aiuterà a maturare, una maturazione che testimonia l’importanza di un costante apprendimento in età adulta.

L’orso, icona mitologica e ponte tra il mondo terreno e quello degli spiriti – lo spirito del male irrompe con la mostruosa figura di Mor’du, dalle sembianze di un orso – è l’animale attraverso cui la madre Elinor scoprirà le caratteristiche di un mondo esterno sconfinato e spaventoso, non sempre controllabile ma con il quale convivere e comunicare. Particolarmente efficace, pur nel suo momentaneo abbandono da codici rassicuranti altrove rispettati dal film, è la scena in cui l’orsa – regina viene sopraffatta dalla propria intima e (ri)trovata ferinità e quasi aggredisce sua figlia,in un picco di immaginata violenza dopo il quale gli equilibri e i legami si ristabiliranno gradualmente. Durante il viaggio di reciproca riscoperta resteranno un po’ sullo sfondo le molteplici figure maschili: Re Fergus, rozzo ed amabile ma poco più che monodimensionale, i tre gemelli “terribili” e le effimere comparse come i pretendenti di Merida e i loro padri. Permane la situazione di un dialogo mancato, quasi ascrivibile alle rigide strutture dei lungometraggi d’animazione e alla loro necessità di alleggerire trame e personaggi per una maggiore fruizione. Le scarse sfaccettature nella presenza sullo schermo dei personaggi costituiscono forse un difetto in una pellicola come questa, capace comunque di far emergere in modo vivido le protagoniste e le interazioni intergenerazionali.

Scheda:

Ribelle

Titolo originale: The Brave

  • MONTAGGIO: Nicholas C. Smith
  • MUSICHE: Patrick Doyle
  • PRODUZIONE: Pixar Animation Studios
  • DISTRIBUZIONE: Walt Disney Studios Motion Pictures Italia
  • PAESE: USA
  • DURATA: 100 Min
  • FORMATO: 3D
  • ETA’ CONSIGLIATA: 4-9 anni

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The Brave – 1a parte

Parola per parola. La traduzione italiana del titolo sembrerebbe originale, ma bastano pochi rudimenti per comprendere che non lo è. Cosa c’è allora dietro quel “Ribelle” attribuito a Merida, protagonista del recente film d’animazione Disney? Merida è una principessa disegnata secondo l’estetica semplificata ed iperdinamica della Pixar, con la sua testa grande ed il corpo esile, mobile, avviluppato in una massa indomabile di capelli rosso fuoco che mostrano ad ogni inquadratura la perizia tecnica adoperata per crearli. Una principessa scozzese la cui fisicità e storicità è fissa in un passato fiabesco e parzialmente idealizzato,vagamente medioevale. Eppure la sua nobile origine non basta, da sola, ad attribuirle un posto nel celebre brand “Disney Princesses”, ideato per raccogliere prodotti per l’infanzia (giocattoli, educativi, audiovisivi) rivolti ad un pubblico femminile. Le famose principesse, pur con alcune varianti, avevano un disegno morbido – forse, a tratti, anche più piacevole – legato ad un glorioso passato della casa d’animazione (accanto alle classicissime Cenerentola e Biancaneve le eroine modernizzate del “rinascimento disney”) ma anche un ruolo ben preciso nel ribadire l’appartenenza di genere. Eroine post-post moderne (o informatizzate, o 2.0, oppure ancora digitali, ecc…) come Merida e Rapunzel mostrano un abbandono definitivo delle morbidezze, dell’indeciso fascino del gesto umano e animale genuinamente Disney. Perdono, rinunciando “coraggiosamente” all’interesse di spettatori più adulti, carne. (continua)