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Elemental

Lingua originaleinglese
Paese di produzioneStati Uniti d’America
Anno2023
Durata103 min
Genereanimazionecommediasentimentaleavventurafantastico
RegiaPeter Sohn
SoggettoPeter Sohn, John Hoberg, Kat Likkel, Brenda Hsueh
SceneggiaturaJohn Hoberg, Kat Likkel, Brenda Hsueh
ProduttoreDenise Ream
Casa di produzionePixar Animation Studios,
Walt Disney Pictures
FotografiaDavid Bianchi, Jean-Claude Kalache
MontaggioStephen Schaffer
MusicheThomas Newman

Nell’era dei live action e delle rivisitazioni Disney-Pixar ripropone una variante della storia d’amore tra personaggi apparentemente opposti

Elemental va ad inserirsi nell’ormai longeva tradizione dei film Disney-Pixar che non ce l’hanno fatta, o almeno non del tutto. Fagocitato dai mezzi produttivi continuamente cangianti dell’epoca post-covid, non esplode nelle sale (sempre più gigantesche, roboanti ma sparute, atomizzate nella provincia generica di un Ovest languente) ma rimane al loro interno per un tempo sufficientemente lungo da maturare e destare l’attenzione degli spettatori. Spettatori, s’intende, non necessariamente piccoli ma talvolta più interessati a comprendere la genesi del prodotto della storia stessa. Come già accaduto per Coco e Soul l’incanto visivo e pittorico è il nocciolo attorno a cui chi guarda riesce a dar senso alla propria visione. La resa dei personaggi del popolo del fuoco, supportato dall’accostamento di tecniche d’animazione diverse, ma forse anche della loro controparte, è vivida e insieme struggente, per l’intensa saturazione del colori ma anche per quel movimento ventoso che anima i volti, per la loro violenta precarietà.

Le architetture e le variabili riorganizzate che danno vita alle etnie “fortunate” , che prima dell’arrivo degli abitanti di fuoco convivevano armonicamente nella città, rimandano inevitabilmente alle megalopoli futuristiche e insieme impalpabili già viste in film come Zootropolis. In più si trova una sorta di concezione organica, forse figlia di una rinnovata sensibilità sull’ambiente e sui suoi ecosistemi, con alcune parziali incoerenze. La famiglia di Ember vive in un quartiere meno fragile, meno propenso all’autoorganizzazione estetica secondo linee curve e ampollose. Si accenna, forse anche grazie al doppiaggio un po’ forzato ma funzionale dei genitori (la madre nella versione italiana è Sierra Yilmaz, caratterista turca dalla verve grottesca cresciuta nel cinema di Ferzan Ozpetek), a una visione più ampia sulla condizione degli immigrati: accettati ma mai completamente integrati nella grande città, portatori di valori di condivisione e vicinanza ma, allo stesso tempo, di un conservatorismo a tratti soffocante.

In Elemental c’è tutto, forse troppo: il conflitto interrazziale e quello generazionale, la scoperta dei propri sogni e le prese di coscienza dolorose già viste in molte altre pellicole di coming of age, la storia d’amore più o meno impossibile osteggiata da nemici astratti e astringenti più che da un “cattivo” vero e proprio.

La descrizione dei caratteri tardoadolescenti prova a farsi sfumata e adulta ma, per rivolgersi a tutti, inciampa sulle dicotomiedi una protagonista incapace di dominare la sua rabbia e di un coprotagonista capace solo di empatia e serenità piangente. In tal senso, tra le strizzate d’occhio al pubblico più adulto, potrebbe inserirsi la bizzarra rappresentazione della famiglia “liberal” di lui, apparentemente molto più inclusiva rispetto alla nuova arrivata ma genuinamente ridicolizzata nei suoi eterni pianti quasi risolutori.

L’appropriazione di sé passa invece attraverso esplosioni, allagamenti e soprattutto raffronti diretti con il conflitto, in cui le pulsioni trovano il loro giusto e insieme scontato incanalarsi. Nonostante l’utilizzo di simbologie troppo scoperte, come il potere rasserenante dell’acqua e le nuove reazioni sperimentate attraverso la fusione dei caratteri principali (quel non essere più soltanto se stessi dopo l’abbraccio), il film sa farsi strada nell’immaginario attraverso sequenze descrittive e d’azione a tratti incantevoli: il vetro che prende forma nelle mani della ragazza ma soprattutto l’incursione notturna nell’orto botanico allagato, in cui la luce appare e scompare per preparare all’incanto e, poco dopo, al pericolo. La storia di Wade ed Ember si conclude con un finale conciliante per tutti, in cui nulla è realmente perduto ma in cui ogni scena caotica e intensa sembra perdersi in una brezza leggera e fumosa.

(età consigliata: dai 5 anni)

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Red

La pubertà incontra la storia familiare attraverso rituali magici ed esplosive riflessioni

Titolo originaleTurning Red
Lingua originaleinglese
Paese di produzioneStati Uniti d’America
Anno2022
Durata99 min
Genereanimazionefantasticocommediaavventura
RegiaDomee Shi
SceneggiaturaDomee Shi, Julia Cho
ProduttoreLindsey Collins
Produttore esecutivoPete Docter
Casa di produzionePixar Animation StudiosWalt Disney Pictures
Distribuzione Disney+
MusicheSceneggiatura

In molti storcono il naso di fronte ai riadattamenti Pixar e Disney di questi ed altri decenni. La magia della fiaba trasfigurata, per necessità o per marketing, verrebbe spezzata dall’evidente linearità del protagonista e della sua mancata evoluzione rispetto ad un progetto di vita- Progetto che non mancava ad eroine ed eroi del passato millennio, pur nel tradimento adattativo. Chi era e chi sarà la Mulan, così diversa da quella della leggenda, o meglio: sarà chi è sempre stata o cambierà, come nei più classici coming of age. La Pixar, come spesso accade, non si affida alla fiaba né alla saudade per un tempo lontano mai realmente esistito ma dopo un rinnovato interesse nei confronti delle proprie produzioni si cala nella realtà del passato individuale di una dei suoi autori. Un passato non glorioso, affiancato ad una rievocazione storica recente da riscattare, ravvivandola però con l’ironia già radicata in molte pellicole. La regista sino canadese torna indietro di 20 anni, a quel 2002 in cui le preadolescenti grattavano goffamente la patina delle convenzioni, le abbracciavano e riemergevano dall’abisso con abiti sgargianti e improponibili. Si riappropria dell’estetica da polaroid e dell’ovattata era musicale  delle boyband, segnale di allarme nel passaggio all’adolescenza piena e feticcio da cui discostarsi gradualmente di fronte all’imminente ascesa del primo, vero e carnale interesse amoroso. La protagonista Mei Lin si presenta con una struttura disegnata con linee morbide, un abbigliamento volutamente antiquato rispetto a quello delle sue coetanee – persino rispetto a quello delle sue amiche, come lei “outsider” – e un’energia emotiva incontenibile che esplode al contatto con le rigide tradizioni di famiglia. Si muove al ritmo sincopato delle occidentalissime sonorità R’n’B di fine anni ‘90 – inizio 2000 ma allo stesso tempo risente di quelle trasformazioni psico-fisiche stilizzate care, forse, all’immaginario di anime e manga. Stelline negli occhi, flussi ed effetti fumosi che arricciano, allungano, cancellano il naso e allo stesso tempo scavano nei terreni più scivolosi dell’imbarazzo, nell’egoismo insito nella necessità di autoaffermazione e nelle piccole meschinità quotidiane.

Meilin con i capelli neri, prima della trasformazione in panda rosso

La storia di Meilin è soltanto sua, così personale e peculiare da tratteggiare con precisione un’età e la sua collocazione all’interno di un bizzarro e onirico rituale di famiglia. Il tenero ed enorme panda rosso in cui si trasforma rievoca, nel colore e nell’espressione, tuta una serie di rimandi scontati e più sottili, psicologici e storici. La rabbia e la seguente rassegnazione, non trovando pace, assumono le sembianze cartoonesche ed infiammate tanto vicine al piccolo personaggio di Inside Out, superandone la caratterizzazione. La deflagrazione e successiva riconciliazione passeranno allora per un’affastellamento peloso che comprime l’inquadratura, fattasi cupa. Il personaggio ha bisogno di crescere, ma non lo farà attraverso il tipico romanzo di formazione poiché cercherà di adattarsi al mondo ma, allo stesso tempo, di costruire per sé un angolo speciale e diverso da qualunque altro. La sottile carttiveria. I cedimenti e le altalene “ormonali” di una ragazza come le altre riescono allora a suggerire e a dipingere un essere umano del tutto originale, scontrandosi con il mondo alieno e allo stesso tempo conformista al suo interno rappresentato dalla madre.

Turning red racconta il cambiamento obbligato dell’adolescenza con toni apparentemente leggeri pur rivelando, a tratti, l’essenza turbolenta e fortemente drammatica dello stesso, suggerendo, senza alcun appesantimento didascalico, l’inusitata forza regressiva della repressione e la difficoltà della comunità di origine cinese nel difficile percorso ibrido tra “mantenimento” ed inclusione. Allo stesso tempo percorre una strada di disvelamento della psiche femminile in formazione, suggerendo con immagini giocose il flusso dei pensieri e l’affacciarsi simultaneo di sentimenti e descrivendo le contraddizioni dei primi veri legami tra ragazze. Con Red Domee-shi sembra sviluppare in forma narrativa e compiuta il piccolo e poetico corto “Bao”, in cui l’amore materno passava attraverso una bizzarra rivisitazione culinaria ed un inquietante istinto cannibalesco, simbolo della norma genitoriale che, incapace di autonormarsi, fagocita letteralmente i propri figli.

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80 Myiazaki – Never ending man – Hayao Miyazaki

Nel 2020 arriva sulla piattaforma italiana di streaming Primevideo il documentario Never Ending Man: Hayao Miyazaki. In occasione dell’80 ° compleanno del regista giapponese pubblico una recensione del film, certamente non rivolto ad un pubblico infantile ma interessante e godibile per spettatori curiosi sul “dietro le quinte” di numerose idee mostrate da Miyazaki sul grande schermo

Titolo originaleOwaranai hito: Miyazaki Hayao
終わらない人 宮崎駿
RegiaKaku Arakawa
PaeseGiappone
Durata70 minuti
GenereDocumentario
ColoreColore
Formato16:9
Etàper tutti, consigliato dai 10 anni

Siamo nel 2015. La pioggia scrosciante che fonde e annulla il verde, piante generose che riversano la loro essenza attraversando illusoriamente le finestre di una casa-studio. Non sono date indicazioni precise sul luogo, ma sembra di riconoscere la pacifica area suburbana (visitata da chi scrive proprio a inizio 2016, mentre le riprese del documentario stavano per terminare) dove sorge il Museo Ghibli, magico luogo in cui un enorme e immobile Totoro accoglie i visitatori, invitati ad abbeverarsi di quegli interni e di quelle suggestioni senza poterle immortalare a loro volta.

Hayao Miyazaki, quasi 75 anni, torna nel quartiere periferico di Tokyo dove sono nate le sue storie, e dove da un semplice luogo di lavoro si è fatta strada l’epica legata allo studio Ghibli, ai suoi personaggi ma anche al suo creatore-personaggio, con quel volto iconico e facilmente riducibile a simbolo, a idea.

Nell’iniziale, quasi spettrale silenzio l’artista si riappropria di quei gesti quotidiani che precedevano o accompagnavano il lavoro, come la preparazione di un pasto caldo e fumante, uno dei tanti pasti evocati e abbondantemente descritti nei particolari disegnati in tante sue pellicole. Non è un’idea, né un simbolo, l’uomo Miyazaki. É un ideatore, un disegnatore, ma anche una persona consapevole del suo corpo segnato e stanco, pur nella sorprendente leggerezza dei gesti che traspare dallo schermo del documentario che lo filma. Il regista si schernisce, come a ritrarsi, definendosi “un povero vecchio”. Tale consapevolezza si rifrange nel lento incedere delle stagioni che accompagneranno la sua nuova avventura, con il cielo e le piante a ricordarci in ogni istante la bellezza della natura, così elegantemente profusa nelle immagini create, e insieme la sua inesorabile e apparente ciclicità.

I tratti marcati di Hayao raccontano molto di lui, così come le sue frasi nette: dopo la realizzazione dell’ultimo lungometraggio nel 2013, il semi autobiografico Si alza il vento, l’autore ha sentito all’improvviso di non aver più molto da raccontare, o meglio di non avere la forza per farlo. Emergono, tra un sorriso sornione e una bonaria lamentela su di sé, gli spigoli così tipicamente nipponici di una personalità che nell’immaginario del suo vasto pubblico si era andata formando come completamente diversa, forse tutta sospesa e sognante come le meduse e i pesci fantastici di Ponyo sulla scogliera.

Myiazaki è molto esigente e ricorda come con calma rigidità l’atteggiamento inamovibile e perentorio con cui sollecitava i suoi collaboratori. Da un momento all’altro la frenesia dello studio, delle tante penne al lavoro su fogli giallastri, ha lasciato spazio agli ambienti vuoti dovuti all’impossibilità di poter “fare abbastanza”. O tutto o niente, in un’ottica in cui nulla è lasciato al caso. I collaboratori di un tempo non ci sono più, perché ogni tassello di un film è estremamente importante e il maestro non ha l’energia necessaria per guidare un nuovo progetto. Quando c’era Marnie, del quarantenne Honebayashi, è un nostalgico e struggente ultimo capitolo dello Studio Ghibli, che chiude i battenti nel 2014 (l’ epigono fonderà, di lì a poco, lo Studio Ponoc). Dolente e asciutto è il ricordo di una collega animatrice, la cui dipartita recentemente appresa è accolta dal regista con una dura rassegnazione, aspro e difficoltoso è l’affastellarsi di ricordi, in gran parte piacevoli ma incastonati in un passato che non potrà ripetersi. Anche l’animazione in fondo, pur non fotografando la vita mentre passa, è un’altra espressione di quella “morte in movimento” che è il cinema stesso.

Ma il regista, incompleto proprio perché vivo, accetta di incontrare un gruppo di giovani animatori per dar vita ad un cortometraggio con un bruco protagonista. Da questo canovaccio semplicissimo nascerà una cooperazione eterna, faticosissima, fatta di barlumi d’entusiasmo e ascolto reciproco così come di incomprensioni, di intoppi tecnici e umani dovuti al modo nettamente diverso di comunicare tra “il vecchio” e “i giovani”. Gli ambienti minimali dello studio si riempiono di nuova luce, nuovi sguardi ma anche di un accostarsi alla vita e al lavoro completamente alieno, tecnicizzato e veloce, paradossalmente rilassato perché può permettersi di non essere certosino, maniacale, grazie agli ausili costanti dei mezzi digitali.

Boro il Bruco, il nuovo corto di Miyazaki arriverà in estate
Bozzetto di Kemushi no Boro (毛虫のボロ, “Boro il bruco”) cortometraggio d’animazione del 2018, primo progetto di Hayao Miyazaki esclusivamente in computer grafica, proiettato giornalmente al Museo Ghibli di Mitaka (Tokyo) a partire dal 21 marzo 2018. Il corto, per la cui realizzazione Miyazaki si è avvalso della collaborazione di giovani animatori, fa oggi parte di una serie di mini-film ideati in esclusiva per i visitatori del museo.

Il “bruco” riuscirà a prendere vita, ma fino a che punto il progetto potrà dirsi realizzato? Le creaturine brulicanti attorno al protagonista saranno forse nuovi tarli nella mente del regista, ridestato dalla speranza di poter nuovamente creare qualcosa di grande, forse un film dell’imprevisto e dell’incontro.

(pubblicato anche su filmtv.it)

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80 Miyazaki – Studio Ghibli per genitori e figli

Dopo Fukushima: Hayao Miyazaki dona 300 milioni di yen per un parco giochi  (29/06/2015) - Vita.it

In occasione dell’ottantesimo compleanno di Hayao Myiazaki, nato il 5 gennaio del 1941, ripropongo un articolo già pubblicato sul sito www.filmtv.it nel 2016

In molti in Italia possono dire di aver scoperto i film di Hayao Miyazaki e degli altri registi dello Studio Ghibli in età adulta (o quasi), complice una tardiva distribuzione delle sue opere, inizialmente asservite alle esigenze “adattatrici” della Buena Vista e in seguito ridoppiate in modo fin troppo fedele alla lingua giapponese dalla Lucky Red. L’universo Ghibli è però in gran parte rivolto ad un pubblico in formazione, e guardare un film di Miyazaki insieme ai nostri figli, nipoti o alunni potrebbe rivelarsi un’eperienza interessante se sostenuta da quei “filtri”necessari a rendere fruibile ai bambini di oggi un tipo di animazione molto lontana dal loro modo di essere spetatori.

Lo Studio Ghibli (da Ghibli, vento caldo o scirocco, oppure riferimento all’aereo italiano della Regia Aeronautica utilizzato per entrare in nord Africa) apre i battenti nel 1985 ma è già del 1984 la realizzazione del primo lungometraggio Nausica della Valle del vento, storia post apocalittica dal chiaro orientamento ambientalista e pacifista. Il film è cupo, ricco di immagini suggestive, scontri e creature mostruose (gli insetti giganti che dominano la terra, estendendo ogni giorno di più la giungla tossica, ambiente in cui gli esseri umani non possono sopravvivere), dalla durata inconsueta di 2 ore. Il finale regala però apertura e speranza, coronando le gesta di una coraggiosa principessa che lotta contro le aberrazioni di quegli uomini che tentano, senza successo, di distruggere la giungla tossica in modi plateali e violenti. Nonostante la quasi totale assenza di donne tra i registi e gli ideatori di punta nello studio quasi tutti i film usciti successivamente mostrano personaggi femminili interessanti e sfaccettati, spesso forti e risoluti o comunque in procinto di scoprire il mondo ed esprimersi. Sono le bambine e le donne a venire a patti con un mondo simbolico inferocito nel loro coming of age, come accade alla protagonista de La città incantata, il film che nel 2001 ha resto estremamente popolare il Miyazaki regista e produttore in Italia e in Europa. Sono bambine, anche in età tenerissima, a comunicare con gli spiriti della natura superando la diffidenza e la paura, come accade ne Il mio vicino Totoro, nel 1988, distribuito nelle nostre sale con 20 anni di ritardo. 

La città incantata (2001): Trailer italiano

Nel mondo occidentale la distribuzione dei film dello studio è affidata alla Disney, ma la politica sui tagli si afferma immediatamente come molto rigida: dopo un insoddisfacente adattamento di Nausica da parte degli statunitensi Miyazaki vieta qualsiasi taglio o snaturamento dei film. Tali “migliorie”, del resto, erano volte unicamente a conferire un appeal commerciale e ad assicurare la vendibilità dei lungometraggi animati, non tanto a riparare i giovani spettatori da  eventuali contenuti conturbanti. Pur illustrando temi importanti come la crescita, la vecchiaia, la morte, l’interazione tra generazioni, avvalendosi di una grafica non sempre rassicurante (uno dei punti chiave della riconoscibilità degli autori Ghibli è la pressoché totale rinuncia al digitale) le opere Ghibli sembrano essere ugualmente contrassegnate  da un’estrema delicatezza nel trattare i temi affrontati, limitando o azzerando le immagini insinuanti e le allusioni di tipo sessuale che potrebbero essere non pienamente colte o analizzate dal pubblico infantile, garantendo una generale fruibilità estendibile anche alla prima infanzia. L’ostacolo vero, per i piccolissimi e anche per molti bambini in età scolare abituati ad un certo tipo di animazione (le serie ad episodi brevissimi, il ricorso continuo a scene d’azione e ad effetti sonori e visivi per destare l’attenzione), potrebbe risiedere piuttosto nella complessità della trama e delle caratterizzazioni, supportata da disegni stratificati ed evocativi in cui è possibile cogliere molti dettagli. Molti dei film prodotti dallo studio giapponese, dunque, possono essere apprezzati da fasce d’età diverse, ma non in modo uniforme. In storie di formazione e di adolescenza come Kiki: consegne a domicilio, per esempio, un pubblico di pochi anni più giovane della protagonista potrà identificarsi nelle sue peripezie, pur estrapolando l’elemento “magico” del racconto, mentre i classici elementi atti a suscitare meraviglia potrebbero rapire gli occhi di spettatori nella prima infanzia, lasciando all’adulto che “accompagna” il piacere di cogliere elementi estetici e contenuti emotivamente profondi.

Ancora più complesso sembra essere il lavoro di Isao Takahata, il vero e proprio “numero due” dello Studio. Come Miyazaki, autore di serie animate qualiConan, ragazzo del futuroe tra i registi della saga diLupin III, il regista, classe 1935, ha cominciato la propria carriera alla Toei Animation. Lo ricordiamo come autore di serie che tutt’ora rimangono ben impresse nell’immaginario dei bambini cresciuti negli anni ’70 e ’80 e fruite anche dalle successive generazioni per via delle numerose repliche Parliamo, soprattutto, di Heidi (1978) e Anna dai capelli rossi, entrambe tratte dalla letteratura occidentale. Come il collega, Takahata manifesta il desiderio di attingere da una cultura percepita come distante e in un certo senso anche ingombrante, ma riesce a farlo in maniera inedita, con i tratti realistici e sintetici dei suoi personaggi, tutti sottoposti al gioco del destino e alle incombenze di una vita che presenta più volte il proprio lato aspro. Talvolta i suoi protagonisti sembrano in grado di reagire, a volte invece non possono far altro che abbandonarsi alle circostanze, lasciando l’unica possibilità di redenzione al pubblico che guarda. Che è giovane, ma forse non più giovanissimo: dopo il bizzarro lungometraggio Panda, go, Panda! infatti Takahata realizza opere dominate da un rigore espressivo e morale molto forte, seppur venate, talvolta, di un’ironia dai toni adulti. Riappare la sessualizzazione dei personaggi, come per i procioni “mutaforme” di Pom Poko, ma anche i temi ecologisti ed anti-bellici si impongono in maniera più radicale. Dopo un continuo confronto con il reale e un processo attento di rielaborazione letteraria Takahata torna però ad occuparsi di un universo familiare tipicamente nipponico, con disegni ingentiliti da un’aura di sogno e di leggenda e con una delicatezza psicologica che svela la tragicità del mito e la sua connessione con il mondo reale: realizza, così, la sua opera più genuina con La storia della principessa splendente (2013).

Il film esce nello stesso anno di Fischia il vento, che annuncia l’addio di Miyazaki alla regia e prepara il terreno per uno “scioglimento” dello Studio Ghibli stesso. È del 2014 l’ultimo lungometraggio animato prodotto dallo studio, il romantico Quando c’era Marnie. Il film vede ancora una volta una bambina – quasi adolescente – come protagonista e racconta un’amicizia al femminile segnata dai temi della perdita, dell’isolamento e della commistione con un mondo immaginario. Hiromasa Yonebayashi, che aveva già diretto Arrietty (2010), limita in questa pellicola l’utilizzo dell’elemento fantastico per approfondire l’aspetto del romanzo di formazione, già presente anche nel “mondo in miniatura”degli esordi. Se insieme a Goro Myiazaki Yonebayashi sembra essere l’erede delle tematiche e della sensibilità Ghibli, tale speranza sembra essere smentita dalle dichiarazioni dello stesso, che poco tempo dopo l’uscita del suo secondo film dichiara di voler abbandonare lo Studio.

Lo stesso Miyazaki fa marcia indietro più tardi, dichiarando che lo Studio produrrà il suo primo film in CGI. Resterà agli spettatori l’ultima parola sulla trasformazione più inattesa, vista da alcuni come una sorta di tradimento della poetica visiva e non dello Studio Ghibli.

Di seguito, una filmografia parziale con un breve sommario e qualche indicazione, anch’essa parziale,  sulla fascia di età più adatta alla fruizione. La quasi totalità dei film proposti può essere visionata anche da un pubblico pre-scolare con la guida di un genitore ed alcuni accorgimenti per rendere la visione più “leggera” e partecipe.

“Pre-Ghibli” (film usciti prima dell’effettiva fondazione dello Studio)

Panda, Go, Panda! (1972), Isao Takahata

Il regista realizza il lungometraggio, diviso in due episodi di circa mezz’ora ciascuno, dopo la negazione dei diritti per adattare in forma animata le celeberrime Avventure di Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren. La sua piccola protagonista infatti si ispira a Pippi nell’aspetto (lunghe trecce rosse puntate verso l’alto) e nell’indipendenza, e particolarmente efficaci risultano i due protagonisti zoomorfi,ovvero il buffo ed enorme Papanda, somigliante a Totoro, e il tenero Pan. Le storie, tra ingenuità ed ecologia, mancano un po’ di coesione narrativa e presentano qualche sottile ambiguità (la bambina, orfana, “adotta” Papanda come suo padre e Pan come figlio), ma per i più piccoli resta l’energia colorata di disegni e canzone originale. (età consigliata : 3-6 anni)

Nausicaä della Valle del vento
(Kaze no tani no Naushika) 4 marzo 1984, Hayao Miyazaki

 Alcuni considerano il film pre-Ghibli, anche se molti dei collaboratori di Miyazaki lavoreranno in seguito nello Studio . Un’opera imponente, mastodontica nella durata, spietata e visionaria. La speranza per il futuro viene restituita da un’eroina dall’aura mitologica, una tra le figure più mature della filmografia di Miyazaki. Notevole colonna sonora, tra le prime realizzate da Joe Isaishi per lo Studio, che fonde l’elettronica jazzata anni ’80 alla musica contemporanea. (dai 7-8 anni e oltre)

Film Ghibli (dal 1985)

Laputa – Castello nel cielo
(Tenku no shiro Rapyuta) agosto 1986, Hayao Miyazaki

Ispirato dall’anime Conan, dello stesso Miyazaki, e a sua volta ispiratore de Il mistero della pietra azzurra, serie animata dei primi anni ’90, il lungometraggio riprende temi e personaggio della serie degli anni ’70 e ne migliora personaggi e scenografie, combinando il mondo apocalittico di Nausicaa con il mito di Atlantide (dai 6 anni).

Il mio vicino Totoro
(Tonari no Totoro) 1988, Hayao Miyazaki

Film che segna la nascita della “mascotte” dello Studio e ne sancisce anche il successo, favorendo poco più tardi l’esportazione dei lungometraggi Ghibli in territorio statunitense ed europeo.  Apparentemente dedicato ad un pubblico prettamente infantile , il film affronta in profondità temi come la crescita, simboleggiata dal ricorso alla fantasia per risolvere problemi, il distacco da un genitore (elemento autobiografico per il regista), il conflitto tra città e natura (dai 3 anni).

La tomba delle lucciole
(Hotaru no haka) 1988, Isao Takahata

Dolce e insieme dura come una pietra, la pellicola di Takahata racconta con crudezza di particolari e allegorie dal mondo animale la realtà terribile della guerra. Due fratelli affrontano le ristrettezze del dopoguerra nell’indifferenza degli adulti in una sorta di affresco neorealista animato (dai 12 anni e oltre: a causa della forte tragicità della trama si sconsiglia la visione ai bambini, soprattutto se facilmente impressionabili e non supportati dalla guida di un adulto).

Kiki – Consegne a domicilio
(Majo no takky bin) 1989, Hayao Miyazaki

Opera leggera e briosa, Kiki colpisce per la positività e la propositività  della protagonista, una streghetta tredicenne che deve svolgere un anno di praticantato in una città lontana dalla propria, incappando in più di una difficoltà e nella momentanea perdita dei poteri. Un vero e proprio inno all’indipendenza, femminile e non (dai 4 anni)

Pioggia di ricordi
(Omohide poro poro)1991, Isao Takahata

Un’impiegata ventisettenne prende una pausa dalla sua vita frenetica per un viaggio verso la campagna. I paesaggi incontaminati e l’incontro con la “se stessa di quinta elementare” la porteranno a riconsiderare in parte la sua esistenza e ad aprirsi a nuovi orizzonti emotivi (dai 10 anni, per il tono intimista e scarsamente “favolistico” della vicenda narrata)

Porco Rosso
(Kurenai no buta) 1992, Hayao Miyazaki

L’omaggio di Miyazaki all’aviazione italiana passa attraverso la storia di un pilota dal volto di maiale, che si prepara ad un terribile scontro nell’aria grazie all’aiuto di una giovane idraulica (dai 9-10 anni).

Pom Poko
(Heisei tanuki gassen Ponpoko) 1994, Isao Takahata

I procioni si ribellano all’espansione industriale  e combattono gli uomini studiandone le abitudini e assumendone la forma. Tagliente e bizzarra satira del mondo dei media e dello sviluppo incontrollato causato dalla crescente globalizzazione (dai 10 anni). 

I sospiri del mio cuore
(Mimi o sumaseba) 1995, Yoshifumi Kondo

Prematuramente scomparso, Kondo  affronta ancora una volta il tema della crescita e delle difficoltà affrontate nel portare avanti un progetto. Lo sguardo,incerto, è quello di una studentessa tredicenne che vive in una metropoli chiassosa e se ne isola grazie all’aiuto di bizzarri personaggi, trovando l’ispirazione per il suo primo romanzo. A guidarla c’è anche la forza e la determinazione del primo amore (dai 7 anni).

Principessa Mononoke
(Mononoke-hime) 1997, Hayao Miyazaki

Gli spiriti sofferenti della foresta lottano contro i soprusi degli uomini, trasformandosi in terribili demoni. A prendersi cura di loro c’è una principessa guerriera, affiancata dall’enorme madre-lupo e da un avventuriero colpito da una maledizione. Ambientato nel Giappone medievale e influenzato dalle visioni scintoiste, Mononoke è ancora una volta una parabola sul rispetto della natura (dagli 8 anni).

La città incantata
(Sen to Chihiro no kamikakushi) 2001, Hayao Miyazaki

Considerato il capolavoro dello Studio Ghibli, La città incantata ha segnato l’inizio di una seconda vita per le opere dello Studio, che da questo momento verranno sempre trasposte sul grande schermo e on paesi europei, tra cui l’Italia. Un mix tra antico e moderno, tra suggestioni spirituali e vissuti personali, il film racconta la storia di Chihiro, i cui genitori sono rimasti imprigionati in un terribile incantesimo. Per liberarli la bambina dovrà lavorare nelle terme degli spiriti e non dimenticare mai il proprio nome. Scenari affastellati e avvolti nel silenzio, figure spaventose ed enigmatiche e più di un pezzo della colonna sonora (sempre di Joe Isaishi) ancora nei ricordi degli spettatori (dai 7 anni).

La ricompensa del gatto
(Neko no ongaeshi) 2002, Hiroyuki Morita

Il piccolo felino sembra essere preso in grande considerazione in Giappone, e per la prima volta lo Studio Ghibli gli dedica un’intera pellicola, seppur “minore”. La studentessa imbranata Haru scoprirà qualcosa in più di se stessa passando attraverso il fantomatico mondo dei gatti, e persino trasformandosi in una di loro (dai 4 anni. Nonostante l’età “avanzata” della protagonista, il film è estremamente semplice e fruibile).

Il castello errante di Howl
(Hauru no ugoku shiro) 2004, Hayao Miyazaki

Miyazaki torna alla regia dopo solo due anni con un film dall’intenso impatto visivo ed emotivo. La “sartina” Sophie, in un’ipotetica città europea su cui si alzano le ombre minacciose della guerra, rimane vittima di un incantesimo che la rende vecchia dopo aver offeso la terribile Strega delle Lande. Ad aiutarla ci sarà l’affascinante mago Howl e un gruppo di scalcinati personaggi, tra cui il “fuocherello” Calcypher, che lei aiuterà a sua volta (dai 6-7 anni).

I racconti di Terramare
(Gedo senki) 2006, Goro Miyazaki

Il figlio di Hayao debutta alla regia con un film ambizioso, non ben accolto dalla critica. Da un romanzo fantasy statunitense si narra la storia di Arren, principe che vuole lottare contro la distruzione della propria civiltà (dai 6-7 anni).

Ponyo sulla scogliera
(Gake no ue no Ponyo) 2008, Hayao Miyazaki

Vagamente ispirata a La sirenetta, la vicenda di Ponyo si spoglia del carattere drammatico dell’originale per accentuare l’aspetto gioioso e vitale di un pesce – bambina, desiderosa di esplorare un mondo da cui proviene (il padre è uno stregone ex umano) e di fare amicizia. La calma celestiale e la successiva furia del mare, che si ribella alla partenza della piccola, sono resi da un’abile tecnica pittorica (dai 3 anni).

Arrietty – Il mondo segreto sotto il pavimento
(Karigurashi no Arrietty) 2010, Hiromasa Yonebayashi

Arrietty è una ragazzina alta pochi centimetri appartenente alla razza dei prendinprestito. Vive con i genitori in uno scantinato di campagna, e ben presto scopre che la casa sopra di loro ospita un ragazzo “umano” della sua stessa età. Debutto alla regia di Yonebayashi, classe 1973, già collaboratore di Miyazaki (dai 5-6 anni).

La collina dei papaveri
(Kokuriko-zaka kara) 2011, Goro Miyazaki

Una ragazza ed un ragazzo intrecciano una tenera amicizia sullo sfondo del Giappone del 1963, in attesa dei giochi olimpici che ridaranno luce internazionale al paese  (dai 7 anni).

La storia della principessa splendente
(Kaguya-hime no monogatari) 2013, Isao Takahata

Il tratto della pellicola sembra seguire l’andamento incostante, abbozzato e lieve di una penna fantasma. Da una famosa leggenda popolare nipponica la storia segue la vita sulla terra di una “pollicina” orientale, che rinasce da un tronco di bambù dopo essere scesa sulla terra dalla luna. Allevata con amore da due anziani, la bambina vive un’esistenza piena immersa nella quiete della natura fino a quando i genitori non si trasferiscono in città. Imprigionata in vesti sgargianti e contesa dalla brama di numerosi principi, “Gemma di Bambù”sperimenta il dolore della cattività imposta dalla vita sulla terra. Un’opera d’arte pittorica e una riflessione sul potere delle emozioni e della loro mancanza (la visione del film non è sconsigliata ai più piccoli, ma lo stile narrativo e visivo potrebbe causare una scarsa comprensione. Dai 9-10 anni)

Quando c’era Marnie
(Omoide no Mani) 2014, Hiromasa Yonebayashi

Anna deve riprendersi da problemi di salute e per farlo passa l’estate ad Okkaido, dagli zii. Qui, attratta da splendidi paesaggi lacustri, farà conoscenza con una misteriosa ragazza in abiti eleganti. La loro struggente amicizia ha radici in un doloroso passato (dai 7-8 anni).

introduzione parzialmente tratta dal mio blog Audiovisivi per piccoli)

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Opopomoz

Manifesto italiano del film
<p class="has-drop-cap" value="<amp-fit-text layout="fixed-height" min-font-size="6" max-font-size="72" height="80">Nasce da una lezione di Lotte Reininger l'amore di Enzo D'alò per l'animazione, così come spiegato in questa lunga <a href="https://www.youtube.com/watch?v=SgVlzDrx88g&ab_channel=DarioMocciaChannel">intervista</a&gt;. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista napoletano trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo <em>La gabbianella e il gatto</em>. Non è così in <em>Opopomoz</em>, primo film animato diretto da D'Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul <a href="https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/film/opopomoz.htm&quot; data-type="URL" data-id="https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/film/opopomoz.htm">doppiaggio</a&gt;, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l'accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare "sfondo".Nasce da una lezione di Lotte Reininger l’amore di Enzo D’alò per l’animazione, così come spiegato in questa lunga intervista. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista napoletano trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo La gabbianella e il gatto. Non è così in Opopomoz, primo film animato diretto da D’Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul doppiaggio, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l’accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare “sfondo”.

Opopomoz” e una Napoli magica - Mar dei Sargassi
Un’immagine -bozza del film: la passeggiata delle due famiglie nella via dei presepi (S.Gregorio Armeno) a Napoli

Il piccolo Rocco, con l’aiuto di una dolce cuginetta, si inabissa nel luogo – non luogo per eccellenza per sfuggire alla percepita indifferenza dei suoi genitori, appena “investiti” dall’arrivo di un fratellino che sembra fagocitare le attenzioni di tutti, persino quelle dei lontani parenti. Il presepe, simbolo e fardello di una fede talvolta più mostrata che vissuta, ma anche oggetto d’arte minuziosa e ostinata come accade nelle vie centrali della vecchia Napoli, assume l’indicibile sembianza di mondo altro: è un nuovo luogo animato dalla magia, o forse persino dalla malìa blasfema di due diavoli cartooneschi e maligni che spingono il ragazzino ad invischiarsi in vicende più grandi di lui. Il presepe diventa, dunque, terreno di gioco in cui i personaggi, fino ad un momento prima ineluttabilmente immobili per volere dei grandi, prendono vita e raccontano le loro numerose ed interessanti storie. Il significato religioso, pur presente, appare dunque come un semplice spunto per narrare una vicenda umana ancora più vasta e insondabile come quella dell’amore-odio che lega bambini ad adulti, bambini a bambini. La mancata nascita di Gesù indica, forse troppo smaccatamente, la difettosa accettazione della nuova entrata in famiglia. L’arduo percorso di riconciliazione con i propri affetti e con parti nuove e più profonde di sé passa per incursioni metafisiche e simil-storiche attraverso varie tappe, scandite dal soul contaminato e sognante di Pino Daniele e dalle voci, non solo parlanti, di villain maestosi come Sua profondità /Peppe Barra.

Le pulsioni negative, ridicolizzate nella loro teatralità esplosiva e accostate al roboante mondo subterraneo, vengono così esorcizzate nel viaggio del giovane protagonista, sempre in ascolto del suo lato oscuro pur nell’andamento carezzevole del suo percorso.

Lingua originaleItaliano
Paese di produzioneItalia
Anno2003
Durata76 min
RegiaEnzo D’Alò
SoggettoEnzo D’Alò, Umberto Marino
SceneggiaturaEnzo D’Alò, Furio ScarpelliGiacomo Scarpelli
ProduttoreLuigi Musini e Roberto Cicutto
Casa di produzioneAlbachiara, Rai Cinema, DeAPlaneta
Distribuzione in italianoMikado Film
MontaggioSimona Paggi
MusichePino Daniele
ScenografiaMichel Fuzellier
Art directorAlessio Giurintano
Character designWalter Cavazzuti
AnimatoriStranemani
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Lo straordinario mondo di Gumball

Titolo originaleThe Amazing World of Gumball
Paese Regno Unito,  Stati Uniti
AutoreBen Bocquelet
ProduttoreJoanna Beresford
MusicheBen LocketNeil Myers
StudioCartoon Network Development Studio Europe
1ª TV3 maggio 2011 – 24 giugno 2019
Episodi240 (completa)
Durata episodi11 min
Editore it.Warner Home Video (DVD st.1), Koch Media (DVD st.6)
Rete italianaCartoon NetworkBoing (Netflix)
1ª TV it.1 ottobre 2011 – 13 settembre 2019
Episodi 240 (completa)
Durata episodi11 minuti
The Amazing World of Gumball the Storm: Amazon.it: Sjursen-Lien, Kiernan,  Atlansky, Lesley, Fiorentino, Mike, Amin, Shadia, Bocquelet, Ben: Libri in  altre lingue

(dai 9 anni)

Palla di gomma, letteralmente. Il protagonista, gatto, sovverte ogni legge della fisica paratelevisiva, giocando animatamente sui luoghi comuni delle serie a cartoni.

L’animazione lineare dei caratteri principali, legati in un bizzarro nucleo familiare, incontra l’impossibile prospettiva dei luoghi fotografati, così come personaggi minori o secondari si stagliano su quegli stessi sfondi avanzando minacciosamente, giustapposizioni di tecniche grafico-pittoriche differenti. Gumball potrebbe apparire ad occhi adulti, mediamente distratti, come un gran pastrocchio. L’estetica diretta e buffonesca dei protagonisti, con i loro cromatismi tipici e accesi, costituisce di certo un motivo di attrattiva per spettatori piccolissimi, ma ogni segmento di quest’inusuale prodotto d’animazione sembra inoltrarsi sempre di più in una sorta di diorama stratificato, percorribile a più livelli e in modo assai più sconnesso e assai meno “pedagogico” di quanto accadesse con Peppa Pig. L’ambientazione è squisitamente americana e il fine ultimo di Gumball appare chiaramente quello di persuadere, di intrattenere, a tratti persino di blandire, senza rinunciare però a delle incrinature che oltrepassano la zona comfort degli ammiccamenti cartooneschi già sperimentata anche nel passato recente.

Ancora una volta, e qui gli autori sembrano inevitabilmente degli epigoni di molti altri predecessori, la famiglia presenta la classica composizione “a la Simpson”, con un padre obeso e di scarso comprendonio, coniglio rosa, una madre gatta blu come il suoi primogenito, intelligente e tuttofare così come la sorella minore, una quattrenne dal linguaggio incredibilmente ricco, il protagonista e un fratello-amico che impersona letteralmente e forse simbolicamente il classico pesce fuor d’acqua. Speci (emblema di razze?) e abilità per lo più intellettive si incrociano nella definizione dei personaggi principali: il contraltare dell’umorale protagonista, a tratti bilanciato dal fratello adottivo, ma ancor più del padre iperferino, coniglio rosa incredibilmente goffo ed inerme, sono infatti una madre multitasking che, a differenza di molte madri da sit-com, lavora, e una sorella troppo giovane per essere ciò che è. Lo slittamento in uno scenario grottesco, in cui tutto è baldanzosamente “iper”, potrebbe allora configurarsi come una parodia di certa narrazione satirica, pur essendo questa visibile in prodotti ben più adulti ed adultizzati. Senza l’esplicito riferimento a politica e società statunitense Gumball diventa allora molto più fruibile degli show da cui trae ispirazione, e libera la propria creatività nell’assembramento di personaggi fantasiosi e a volte poco rassicuranti, come nel caso del ragazzo senza mento, caratterizzato da un’enorme bocca fotografica e orrorifica, o come nel caso della ragazza dinosauro priva di parola, spesso monodimensionali e dal carattere primitivo, in fondo bonario e contrastante con l’aspetto esteriore. Nuvolette variopinte e bucce di banana animate, studenti letteralmente edibili ma immortali: tutto il carnevale di Gumball si attiva per dar vita a semplici e colorate avventure, nelle quali sembra però strisciare costantemente un senso di disagio, percepibile forse più da spettatori abbastanza maturi, mentre i piccoli si perdono gioiosamente nel non sense. Gli scenari-sfondo immobili distorcono ancor di più la ricerca di un’impossibile profondità di campo, alludendo probabilmente alla presenza di un mega contenitore di cui si disseminano indizi con il proseguire della serie; a questo punto nella semplicità delle storie si inseriscono elementi perturbanti e originali e persino le personalità dei protagonisti sembrano evolvere, pur restando confinate nell’archetipo della non crescita e del non-tempo.

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Dililì a Parigi

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Regista: Michel Ocelot
Genere: AnimazioneFamily
Anno: 2018
Paese: Francia, Belgio
Durata: 95 min
Data di uscita: 24 aprile 2019
Distribuzione: Movies Inspired 

Michel Ocelot torna a incantare con i suoi disegni bidimensionali, vivacizzati da una sovrapposizione tecnica e tematica, in una storia che interseca realtà e voli fantastici.

Ocelot, classe 1943, condivide parte della biografia artistica e professionale con molti animatori della sua generazione: alcune serie televisive negli anni ‘80 e ‘70 e poi l’approdo al lungometraggio, assai più tardivo, dopo numerosi viaggi ed esplorazioni non solo letterarie e prima di inusuali collaborazioni (il videoclip per Bjork Earth intruders). Nato vicino Nizza e in costante contatto con il sud del mondo, espleta le sue suggestioni artistiche e pittoriche con il primo film animato Kirikù e la strega Karabà, il cui successo darà vita a due seguiti, ma è riconosciuto anche per Azur e Asmar, fiaba che tenta la fusione tra la tradizione narrativa occidentale e quella mediorientale.

Le figure di Michel Ocelot sono, anche in quest’ultima opera, vere e proprie figure, sagome non materiche che si stagliano su scenografie quasi completamente immobili, animate solo dal passaggio degli esseri umani e non. Una bidimensionalità ricercata, che trascende il semplice rifiuto della computer grafica (già attiva e in crescita ai tempi del primo Kirikù) ma che inscrive piuttosto nell’anelito narrativo: i personaggi sono come le essenze in movimento estratte dalle pagine di un libro, da un quadro, da una pittura rupestre, vivificati dal soffio della parola, dal suono e dalle storie che hanno urgenza di mostrarci.

Con un movimento di macchina all’indietro scopriamo presto che l’Eden splendente di verde e di natura in cui si aggira la piccola Dililì, kanaka alle prese con una vita primitiva insieme agli adulti del suo villaggio, altro non è che un quadro vivente delimitato da una recinzione, al di là della quale si accalcano gli occhi curiosi del pubblico parigino. La protagonista è dunque l’attrice di una sorta di presepe vivente o meglio di uno zoo umano, forse un’aberrazione per i moderni, ma una volta uscita dal suo quadro vive un’esistenza assai inconsueta: è assistita, curata ed educata da una nota personalità socialista dell’epoca, la signora Louise Michel(siamo tra il 1889 e gli inizi del ‘900), restituita ai nostri occhi con tratti realistici direttamente traslati dalle fotografie in bianco e nero.

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La ragazzina, vestita di bianco e d’oro e opportunamente leziosa, con il suo delicato inchino e la sua presentazione vagamente ironica, è quindi una piccola donna curiosa ed attiva, desiderosa di partecipare alla vita del suo tempo. Per farlo trova un amico insolito, il cui agire in una trama strettamente realistica ci apparirebbe come sospetto: è il fattorino tardo adolescente Orel, dagli occhi di ghiaccio, genuinamente interessato all’amicizia di Dililì ma totalmente scevro da sentimenti morbosi e inadeguati alla sua giovanissima età.

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Insieme si troveranno coinvolti nel vortice di un giallo, collaboratori in un’indagine sui casi di misteriose sparizioni di ragazze giovanissime e bambine nella città di Parigi. È un vortice che necessita, almeno in parte, di un distacco dal disegno simil geroglifico che ricordiamo anche in Azur e Asmar: i volti di Orel e della bambina, sospinta nel carretto a due ruote, si animano e si incupiscono con dovizia di particolari, in una caratterizzazione che va oltre l’essenzialità perseguita altrove, e lo fanno in una città intatta e meravigliosa, miracolo d’arte e di architetture sia nei vicoli delle scene diurne che nelle grandi piazze e nella resa dei monumenti in notturna. Appare evidente l’utilizzo di immagini fotografiche accanto ad accenni di computer grafica, in veri e propri tour virtuali in una Parigi dal vero per la quale si potrebbe utilizzare in senso pieno e positivo la vecchia espressione denigratoria di “città da cartolina”. Si tratta però di una vocazione turistica nobile, di un vagheggiamento nostalgico che non stride con le accurate pitture animate degli interni, delle periferie e delle campagne “maledette”.

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Sarah Bernhardt

Appare cruciale, allora, anche l’utilizzo delle comparse e l’interazione appassionata e originale che i due hanno con gli intellettuali parigini dell’epoca: un giovanissimo Picasso abilmente caricaturizzato, così come i colleghi fauvisti, la raggiante e languida Sarah Bernhardt, la cantante d’opera Emma Calvè, vera e propria coprotagonista, che stupisce Dililì con un primo vero abbraccio, effusione ignota alla piccola. È proprio nel palazzo della splendida e altera diva che la realtà così vicina si trasfigura, prima in un’immensa piscina al chiuso illuminata da luci azzurre e poi in un’esplorazione delle fogne cittadine.

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(Sopra: la celebre scienziata Marie Curie, a sinistra, in una gif tratta dal film insieme a sua figlia, a destra in una foto)

C’è una parte della città, o forse dell’umanità, che fa il tifo per Dililì e per le ragazze scomparse e si coalizza armoniosamente intorno a lei, a tratti divertendola ed estasiandola con ripetuti, sovrabbondanti omaggi all’arte, alla letteratura, alla politica e alla storia. Sono tantissimi i personaggi citati, fino al punto che è quasi impossibile ricordarli tutti. Quest’umanità dipinta da colori poco ombreggiati, a misura dei bambini che guardano, si contrappone allora nettamente agli antagonisti, la società dei Maschi Maestri. Di giorno questi esseri si confondono tra uomini distinti vestiti di nero, quel nero così bizzarro per l’osservatrice Dililì, ma dopo una prima iniziazione vengono promossi con un vistoso anello al naso e hanno volti grotteschi, ingialliti, adunchi. Non sopportano le donne e le bambine, e il loro piano e le relative motivazioni atterriscono nella loro stolta assolutezza, scoperchiata e sconfitta in modo eroico da un connubio di umanità e visioni avveniristiche, come il gigantesco dirigibile che si staglia nel cielo blu, in partenza dalla giovane Torre Eiffel. I Maschi Bianchi, terribili e ridicoli insieme, hanno però appoggi anche ai “piani alti”, ad esempio tra le alte cariche della Polizia.

Inquietante è il loto trattamento delle bambine (e delle donne, rapite in passato) prigioniere nel mondo sotterraneo, costrette a muoversi a quattro zampe, accecate da un sacco nero che le riduce ad esseri larvali, impotenti, assoggettate ad un potente indottrinamento.

Dililì affronta la sfida per riappropriarsi anche un po’ di sé, della sua crescita incerta, degli sguardi pungenti dei suoi connazionali che la giudicano “troppo bianca” e dei francesi che la vedono invece “troppo nera”, riportando allo stesso tempo al centro il discorso su un cammino inesorabile della storia che forze occulte (ma non troppo) vorrebbero riportare insieme, cammino fatto di emancipazione femminile e dell’infanzia. Gli accenni cupi e inquietanti ai possibili risvolti della storia si disperdono, cautamente e in modo fluido, rendendo il film meno stratificato ma maggiormente fruibile per un pubblico di giovanissimi, per i quali resteranno negli occhi la pedalata collettiva delle bambine in cielo, verso i propri cari, e le variopinte coreografie finali, oltre alla guida di un’eroina vispa e spontanea, mai realmente dimentica del suo essere bambina. Ocelot resta dunque nei meandri del film morale, infondendo un sentore di speranza ai giovani spettatori in modo diretto e comprensibile, senza impantanarsi nel mero didascalismo.

(recensione presente anche su filmtv.it )

Voto: 7,5

Età consigliata: dai 6 anni

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Shrek 2

SHREK 2

 

 

 

 

 

Il seguito del fortunato Cartoon Dreamworks, dai tratti rivoluzionari, non stupisce ma risponde alle aspettative

Quando ci si trova davanti ad un immenso calderone favolistico e digitalizzato come Shrek (2) si desiste facilmente da ogni torpore pseudo analitico, per lasciarsi travolgere dalle comiche incalzanti che abbandonano la derisione epica del primo film. Il gioco di rimandi e familiarità comincia con l’ammiccare divertito e sarcastico al Regno di Lontano Lontano, un boulevard simil-hollywoodiano dalla tipica spazialità fintamente avvolgente. Un luogo adatto alle costruzioni ironiche, all’ansia decostruttiva di quei miti cartacei qui ancora più evanescenti, perché pixelati.

Lo splendore novello di uno Shrek umano dal volto quadratamente noto, e il suo eterno combattimento contro quella leziosa bellezza e “umanità”, incarnata dall’odiosa Fata Madrina “canterina” come nella peggiore delle tradizioni disneyane, e dal vuotissimo figlio di lei, Azzurro (Charming nella versione originale). Quei tratti insidiosi, quell’invadenza da spot in cui non possiamo fare a meno di riconoscere i frammenti chiassosi del jet set da bolle di sapone contrastano ancora una volta con la festa di note rivisitate, con l’universo retrospettivo del fantasy e delle sue eterne dinamiche: la locanda tra il western e l’assurdo frequentata dai secolari personaggi di sempre, tra cui un Capitan Uncino pianista sperimentale pericolosamente somigliante a Frank Zappa, ma soprattutto quel coacervo di sinuosità e buffa tenerezza costituita da un ispanico ed inedito Gatto con gli Stivali, che usa il suo stesso aspetto accattivante come arma contro gli “stolti” e oscilla tra la fanfaronaggine e l’affermazione di un’animalità riscoperta, autentica, antropomorfa in modo primigenio.

Lo stesso finale, ricondotto all’abilità da mattatori del Gatto e del vulcanico Ciuchino, fa esplodere quella pungente polvere di stelle e libera dal fittizio la risoluta Fiona e suo padre, restituendo loro una forma “interiore” apparentemente grottesca ma gustosamente armonica e libera. (recensione già pubblicata su cinemovie.info )

Titolo: Shrek 2 2

PRODUZIONE: USA

ANNO: 2004  

GENERE: Animazione

REGIA: Andrew Adamson, Kelly Asbury, Conrad Vernon

CAST: Shrek (Mike Myers – Renato Cecchetto), Ciuchino (Eddie Murphy – Nanni Baldini), Principessa Fiona (Cameron Diaz – Selvaggia Quattrini)

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Me contro Te: La vendetta del Signor S

Risultato immagini per La vendetta del signor S

Gli youtuber per l’infanzia più noti esplorano le frontiere del fan – service, risultando ancora una volta parte di un ingranaggio ben confezionato ma che nulla aggiunge all’ormai sterminata produzione audiovisiva per ragazzi, puntando su scenari già ampiamente collaudati dai vecchi media

Nel 2014 i fidanzatini siciliani Sofia Scalia e Luigi Calagna (17 anni lei, 21 lui) aprono il loro canale Youtube. Vlog, ovvero finestra esperienziale sulla propria cameretta (letteralmente) senza alcuna pretesa di qualità tecnico-visiva né tantomeno contenutistica. I toni estetici, o meglio acustici, ricalcano già le modalità espressive di youtuber attivi e seguiti all’epoca: si urla anziché parlare, incuranti del fatto che l’audio possa essere regolato tranquillamente tramite le proprie casse, si discorre a ruota libera davanti ad una telecamera più o meno fissa. I contenuti, però, sono diversi da quelli nettamente autoreferenziali dei post-adolescenti sul tubo, né si avvicinano a quelli di coloro che tentano un approccio semi-professionale e sviluppano argomenti in forma discorsiva, a volte basandosi su un canovaccio scritto (ad esempio come i tantissimi recensori cinematografici e televisivi, sui quali varrebbe la pena aprire un capitolo a parte, in altra sede). I due ragazzi non si vergognano delle proprie attitudini allo scherzo puerile e alla risata svampita, e a poco a poco ne ricavano un “tema” attorno a cui costruire il canale e riempirlo di pubblicazioni sempre più assidue.
Tralasciando la graduale e poi sempre più esplosiva crescita del successo e dei fattori che realmente vi hanno contribuito, arriviamo ad oggi.

Quasi 6 anni dopo i due ragazzi, sotto il marchio Me contro te e con i diminutivi Sofì e Luì hanno il canale più seguito di Youtube Italia (4 milioni di iscritti) e sono riconosciuti come una sorta di rimpiazzo della vecchia televisione per bambini, dispersa in una decina di canali in chiaro e svariati altri a pagamento, tralasciando le varie piattaforme fornitrici di contenuti (Netflix e Amazon su tutte) ma pressoché prive di  divulgatori come lo furono i presentatori di programmi come Bim Bum Bam, l’Albero Azzurro, la Melevisione ecc…
Rassicurano, sebbene solo in parte, eserciti di genitori preoccupati di fronte all’autonomia mostrata dai figli nel maneggiare tablet e cellulari e nel vagare su Youtube (recente è l’introduzione di un’ulteriore applicazione che permette di selezionare contenuti e tempi di fruizione tra gli innumerevoli filmati presenti sulla piattaforma) per la quasi assoluta vacuità del racconto, dell’espressione e della proposizione di giochi ed esperimenti. Vacuità che somiglia ad un’inconsapevole innocenza, ma non vi si identifica.

Risultato immagini per La vendetta del signor S
La storia attorno alla quale ruota il lungo(?)metraggio Me contro Te: La vendetta del Signor S non è altro che una meta – storia in cui i due protagonisti non recitano personaggi altri ma mettono in scena se stessi, con quell’estremizzazione di gesti e di linguaggio già ravvisata nei loro video, alienando definitivamente l’illusione di una rappresentazione naturale di sé. Così accade anche per i comprimari, tra cui alcuni già noti al loro pubblico come la vicina di casa amorevole ed impicciona, che ancor più dei caratteri principali sono corpi marionettistici, presi in prestito non tanto dalla già citata tv dei ragazzi quanto dall’universo fiction di telefilm e cartoni animati, caratterizzati da un vestiario di colori netti e da cadenze ispirate al doppiaggio per l’animazione.

In crisi e in spasmodica attesa dell’invito ad una premiazione che sembra non voler mai arrivare, i due non riescono a produrre nuovi video, non trovando nuove challenge da lanciare né nuovi prodotti da provare, secondo uno dei format più collaudati dal duo che consiste in uno spottone più o meno velato di giochi e passatempi vendibili. Il sempiterno nemico Signor S, dalla voce opportunamente metallica e dalla postura prevedibilmente misteriosa, sfrutta a suo favore i litigi e le incomprensioni dei due per ordire un piano eccessivo e rocambolesco: la funzione ricreativa dei filmati, studiati nei cromatismi e nei ritmi consapevolmente ipnotici per il loro pubblico, diventa allora un’arma per distruggerli in un ribaltamento gustoso e assurdo di prospettiva. Infatti il malvagio ha intenzione di pubblicizzare, tramite due cloni -robot dei due ragazzi che compariranno nei nuovi video, barattoli di un misterioso slime drogante che spinge i piccoli di tutto il mondo a giocare per alcuni minuti in maniera inebetita fino ad intristirsi, poiché il signor S avrà succhiato attraverso questi tutta l’energia vitale degli infanti.

Risultato immagini per La vendetta del signor S

Il tutto si svolge in ambienti chiusi, atti a contenere furbamente l’imput avventuroso della storia, accennato e compresso prima dalle mura gialle e sovraccariche di della casa – stanza condivisa, poi dall’onnipresente inquadratura -cornice dei video in essa girati e infine in un sotterraneo apparentemente cupo, illuminato da sprazzi fluorescenti e cartooneschi.

Qui vengono imprigionati i due fidanzati, prima che la cattivissima assistente Perfidia  non compia un errore dietro l’altro e il finto villain Dottor Cattivius non si ricreda su di loro. Permangono gli stereotipi caratteriali dei personaggi, con una lei apparentemente più seria e istericamente perfettina, che si impegna per proporre soluzioni quasi sempre fallimentari, ed un lui pasticcione, incapace di trovare strade razionali ma incredibilmente vincente grazie al puro caso, con movenze mutuate dal Pippo disneyano e da altre numerose figure e figurine d’imbranato. A estremizzare questa goffaggine trionfante il già citato Cattivius, grasso e imbambolato come da copione e la stessa Perfidia, una sorta di Miss Dronio in carne ed ossa.

Risultato immagini per La vendetta del signor S

Nell’unica esterna del film, dopo prove frustranti e soluzioni improvvisate, i protagonisti riescono finalmente a salire sul palco ambito e a neutralizzare cloni e nemici, ritirando il terribile slime dalle mani dei piccoli fans e producendosi in un’esibizione finale: si dichiara a gran voce che l’unione fa la forza, nonostante le scene raccontino, piuttosto, la vittoria di una fortuna sciocchina e volubile. Amplificando la loro aura, diffusa in uno scenario mondiale immaginario e mostrato solo attraverso claustrofobiche finestre social, lo strano oggetto filmico della durata di un’ora disvela i suoi punti di forza e di debolezza: da un lato le canzoni cucite addosso ai personaggi dal compositore e cantante di sigle televisive Giorgio Vanni, arricchite dall’immancabile autotune, dall’altra le incongruenze pesanti anche per un prodotto del genere e per il pubblico, talvolta addirittura prescolare, a cui è rivolto. La messa in scena dell’amore litigarello e l’affezione del pubblico infantile precocemente orientato nel seguirlo appaiono ad occhi adulti come programmatici, così come l’alimentazione del desiderio di smascheramento dell’ossessivo cattivo, ancora una volta frustrata, che non vince né perde mai, preservando la sua identità. Almeno fino al prossimo film.

 

Titolo: Me contro Te: La vendetta del Signor S

Regia: Gianluca Leuzzi

Produzione: Italia

Anno: 2019

Interpreti: Sofia Scalia, Luigi Calagna, Antonella Carone, Michele Savoia

Genere: commedia, avventura

Durata: 64 minuti

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Piccolo uovo

La copertina del libro

Piccolo uovo. In CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa). Ediz. a colori - Francesca Pardi - copertina

Per parlare di Piccolo uovo non dobbiamo soltanto affidarci alla forza iconica delle immagini di Altan, le quali campeggiano sulla copertina del libro e introducono anche il breve cortometraggio tratto da esso. Ideato dalla casa editrice Lo stampatello, il breve libro di Francesca Pardi nasce da un progetto atto ad avvicinare l’infanzia a tematiche  sociali e culturali del nostro tempo, pur non appartenendo a presunti “piani di rieducazione” come paventato alcuni anni fa.  Nel 2015 infatti l’allora sindaco di Venezia stilò una lista libri gender,  da bandire nelle scuole e in altri luoghi (come ad esempio le biblioteche comunali) in quanto portatori di un’ideologia contraria alle credenze dei sostenitori dello stesso sindaco, spaventati dal presunto irrompere di un’idea educativa atta a smantellare l’ordine naturale delle cose, ad esempio annullando  le differenze psicologiche e biologiche tra maschile e femminile. In realtà l’episodio di Venezia si iscrive in una cerchia di movimenti reazionari e complottisti molto più ampio,  che trova le sue radici suprematismo religioso statunitense e che investe vari aspetti dell’opinione pubblica italiana ed europea. 

Tra i titoli elencati nella “lista di proscrizione” ricordiamo anche opere non proprio di ultima uscita come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni,  in cui l’abbraccio simbolico tra i due piccoli/ macchie di colore  è stato probabilmente interpretato come fusione innaturale  tra due corpi,  due sensibilità o  o forse due razze.  Alcune delle opere segnalate sono invece molto recenti e soffrono di un didascalismo diffuso e solo a tratti governabile,  come nel caso di   C’è qualcosa di più noioso che essere una principessa rosa?,  in cui l’interessante grafica dai tratti cupi e saturi accompagna una storia che non riesce spiccare per inventiva e che, forse arroccata sul tentativo di promuovere idee ampiamente condivisibili, non sostiene con incisività narrativa le tematiche di un testo dominato dalla curiosità e dall’impulso all’avventura della giovane protagonista.   

Francesca Pardi scrive invece per Lo stampatello un libro rivolto ad un pubblico giovanissimo,  preferibilmente in età prescolare,  supportata  dal disegno  deciso di Francesco Tullio Altan,  celebre illustratore e cartoonist conosciuto come l’ inventore della psichedelica Pimpa alla fine degli anni ’70.  Anche in questo caso il disegno, la parola e  le figure rappresentano animali antropomorfi,  in un mondo in cui anche gli oggetti  o  la vita ancora in potenza  possono parlare, pensare e interagire con altre creature.  L’oggetto, non ancora animale o animato, è in questo caso un uovo,  che poco prima di schiudersi decide di andare in avanscoperta per conoscere possibili tipi di famiglie,  tra le quali troverà forse anche quella che lo alleverà. 

Il cartone riproduce esattamente la storia illustrata del libro,  in cui l’uovo cammina incessantemente esplorando diversi luoghi e facendo la conoscenza di famiglie diversissime per  composizione,  specie,  colori, numerosità.   Oltre ai classici nuclei composti da madre padre e  figli, come  come nel caso della famiglia conigliesca,  il protagonista  interagisce   con ménage  atipici,  che in qualche occasione  fanno riferimento  a una  casistica  esistente in natura  e talvolta rielaborano spiritosamente stereotipi    radicati  nel immaginario.  Ecco che allora  le mamme  gatte, sornione,  circondano armoniosamente con le loro fusa e con i loro corpi i due piccoli mici,  mentre  i papà  appartengono  alla specie dei pinguini, specie  avicola nota più che per i casi di omosessualità  rilevati in natura proprio per la cura paterna figli.  Come  nella Pimpa e in altre opere di Altan  lo spazio tempo sì contrae,  permettendo al piccolo  essere di viaggiare   e mutare rapidamente scenario,   delineando ancora una volta  luoghi  di l’immaginazione e  non propriamente   geografici. 

Il tratto   ampolloso, gentile e insieme netto nel confinare le sue creature,    si perde a tratti  in una certa meccanicità dell’animazione,  che ricalca in parte le  serie  modernizzate della Pimpa di fine anni ’90,  lasciando i personaggi   staccati  dai loro sfondi e  idealmente  distanti   da chi li guarda,  pur essendo questi potenzialmente  vicini   e  empatici.   Altri temi come l’adozione,  famiglia monogenitoriale e  multiculturale  sono vagamente accennati  grazie  rispettivamente  a  canguri,  ippopotami e  cani,  seguendo  le linee una semplicità  emozionale   netta  ma efficace. Questa è naturalmente   rivolta a fruitori  abituati a  pensare secondo  schemi  prelogici  in cui si innesta la  narrazione del magico,  lontanissima  dalle  prevedibili  preoccupazioni  di spettatori  adulti riguardo alla mancata  spiegazione del dato biologico,  da non trascurare ma esplorabile  in altre sedi.  Piccolo uovo  non si propone   dunque come  cartoon  educativo  ma forse, rinunciando ad una prosaica esposizione tipica di altre opere “a tema”. riesce a sensibilizzare il pubblico sulle tematiche suggerite e ad essere allo stesso tempo qualcos’altro, un testo stampato e visivo basico e vivido sulla scoperta di sé e sulle proprie origini.

Libro:  Francesca Pardi,  Francesco Tullio Altan, Piccolo uovo, Lo Stampatello, 2011

Cartoon: Piccolo uovo, regia di Chiara Molinari, 2018, durata 5’58”