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Piccolo uovo

La copertina del libro

Piccolo uovo. In CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa). Ediz. a colori - Francesca Pardi - copertina

Per parlare di Piccolo uovo non dobbiamo soltanto affidarci alla forza iconica delle immagini di Altan, le quali campeggiano sulla copertina del libro e introducono anche il breve cortometraggio tratto da esso. Ideato dalla casa editrice Lo stampatello, il breve libro di Francesca Pardi nasce da un progetto atto ad avvicinare l’infanzia a tematiche  sociali e culturali del nostro tempo, pur non appartenendo a presunti “piani di rieducazione” come paventato alcuni anni fa.  Nel 2015 infatti l’allora sindaco di Venezia stilò una lista libri gender,  da bandire nelle scuole e in altri luoghi (come ad esempio le biblioteche comunali) in quanto portatori di un’ideologia contraria alle credenze dei sostenitori dello stesso sindaco, spaventati dal presunto irrompere di un’idea educativa atta a smantellare l’ordine naturale delle cose, ad esempio annullando  le differenze psicologiche e biologiche tra maschile e femminile. In realtà l’episodio di Venezia si iscrive in una cerchia di movimenti reazionari e complottisti molto più ampio,  che trova le sue radici suprematismo religioso statunitense e che investe vari aspetti dell’opinione pubblica italiana ed europea. 

Tra i titoli elencati nella “lista di proscrizione” ricordiamo anche opere non proprio di ultima uscita come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni,  in cui l’abbraccio simbolico tra i due piccoli/ macchie di colore  è stato probabilmente interpretato come fusione innaturale  tra due corpi,  due sensibilità o  o forse due razze.  Alcune delle opere segnalate sono invece molto recenti e soffrono di un didascalismo diffuso e solo a tratti governabile,  come nel caso di   C’è qualcosa di più noioso che essere una principessa rosa?,  in cui l’interessante grafica dai tratti cupi e saturi accompagna una storia che non riesce spiccare per inventiva e che, forse arroccata sul tentativo di promuovere idee ampiamente condivisibili, non sostiene con incisività narrativa le tematiche di un testo dominato dalla curiosità e dall’impulso all’avventura della giovane protagonista.   

Francesca Pardi scrive invece per Lo stampatello un libro rivolto ad un pubblico giovanissimo,  preferibilmente in età prescolare,  supportata  dal disegno  deciso di Francesco Tullio Altan,  celebre illustratore e cartoonist conosciuto come l’ inventore della psichedelica Pimpa alla fine degli anni ’70.  Anche in questo caso il disegno, la parola e  le figure rappresentano animali antropomorfi,  in un mondo in cui anche gli oggetti  o  la vita ancora in potenza  possono parlare, pensare e interagire con altre creature.  L’oggetto, non ancora animale o animato, è in questo caso un uovo,  che poco prima di schiudersi decide di andare in avanscoperta per conoscere possibili tipi di famiglie,  tra le quali troverà forse anche quella che lo alleverà. 

Il cartone riproduce esattamente la storia illustrata del libro,  in cui l’uovo cammina incessantemente esplorando diversi luoghi e facendo la conoscenza di famiglie diversissime per  composizione,  specie,  colori, numerosità.   Oltre ai classici nuclei composti da madre padre e  figli, come  come nel caso della famiglia conigliesca,  il protagonista  interagisce   con ménage  atipici,  che in qualche occasione  fanno riferimento  a una  casistica  esistente in natura  e talvolta rielaborano spiritosamente stereotipi    radicati  nel immaginario.  Ecco che allora  le mamme  gatte, sornione,  circondano armoniosamente con le loro fusa e con i loro corpi i due piccoli mici,  mentre  i papà  appartengono  alla specie dei pinguini, specie  avicola nota più che per i casi di omosessualità  rilevati in natura proprio per la cura paterna figli.  Come  nella Pimpa e in altre opere di Altan  lo spazio tempo sì contrae,  permettendo al piccolo  essere di viaggiare   e mutare rapidamente scenario,   delineando ancora una volta  luoghi  di l’immaginazione e  non propriamente   geografici. 

Il tratto   ampolloso, gentile e insieme netto nel confinare le sue creature,    si perde a tratti  in una certa meccanicità dell’animazione,  che ricalca in parte le  serie  modernizzate della Pimpa di fine anni ’90,  lasciando i personaggi   staccati  dai loro sfondi e  idealmente  distanti   da chi li guarda,  pur essendo questi potenzialmente  vicini   e  empatici.   Altri temi come l’adozione,  famiglia monogenitoriale e  multiculturale  sono vagamente accennati  grazie  rispettivamente  a  canguri,  ippopotami e  cani,  seguendo  le linee una semplicità  emozionale   netta  ma efficace. Questa è naturalmente   rivolta a fruitori  abituati a  pensare secondo  schemi  prelogici  in cui si innesta la  narrazione del magico,  lontanissima  dalle  prevedibili  preoccupazioni  di spettatori  adulti riguardo alla mancata  spiegazione del dato biologico,  da non trascurare ma esplorabile  in altre sedi.  Piccolo uovo  non si propone   dunque come  cartoon  educativo  ma forse, rinunciando ad una prosaica esposizione tipica di altre opere “a tema”. riesce a sensibilizzare il pubblico sulle tematiche suggerite e ad essere allo stesso tempo qualcos’altro, un testo stampato e visivo basico e vivido sulla scoperta di sé e sulle proprie origini.

Libro:  Francesca Pardi,  Francesco Tullio Altan, Piccolo uovo, Lo Stampatello, 2011

Cartoon: Piccolo uovo, regia di Chiara Molinari, 2018, durata 5’58”

 

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Pinocchio

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Garrone restituisce una riproduzione fedele e insieme straniante delle pagine tardo-ottocentesche di Collodi, destando più di un dubbio sulla possibile etichetta di film per ragazzi

Dopo circa due anni di lavorazione e una ricerca accurata del protagonista bambino (Federico Ielapi, già visto in Quo Vado) Matteo Garrone dà vita al nuovo e atteso Pinocchio, la terza versione dopo l’acclamato sceneggiato anni ’70 a firma di Luigi Comencini e il poco ispirato tentativo di Roberto Benigni nel 2002.

Come per il precedente Il racconto dei racconti non basta il ricorso ad una fotografia livida, in lento ed inesorabile incupirsi, né il parlato cadenzato, altalenante e incerto a delineare i caratteri dei suoi protagonisti. L’incursione nell’universo favolistico e in un’irrealtà che non è solo deformazione psicologica ed estetica del reale si ispira abbastanza saldamente al testo originale, celeberrimo e forse per questo destinato a continue infedeltà adattive. Con perizia tecnica si tratteggia il volto e il corpo di un protagonista non del tutto umano, riuscendo a coglierne le espressioni legnose e insieme insperatamente vive, quasi sempre concentrate in una maschera di ostinazione e irrequietezza infantile.

A circondarlo, l’iperrealtà delle botteghe e delle strade rionali, la vivida senilità di volti e corpi, di casacche preziose e consunte in un’atmosfera che attraversa epoche e spazi con passo delicato e sognante: l’avventura si dipana in borghi con ben poche caratteristiche “moderne” ma inscritti più chiaramente in una sorta di post – medioevo fiabesco, inoltre il viaggio di formazione del protagonista si attarda in luoghi noti d’Italia anche geograficamente lontanissimi, alternando campi d’ulivi, prati immensi, città di sassi e un insieme variegato di cadenze regionali. Geppetto – Benigni compie abilmente la transizione da sguaiato burattino a tenero e fragile anziano, con accenti e movenze opportunamente sopra le righe e il richiamo tragicomico ad una decadenza fisica ed intellettiva che ben si amalgama allo stile registico. Resta quel retrogusto grottesco già esplorato altrove e declinato qui al tratteggio di paure e ossessioni infantili, soprattutto nelle ossa di legno scricchiolanti ad ogni inquadratura, nella scena del fuoco, che causa la mutilazione delle gambe di legno del protagonista o nei volti corrucciati, deformati e dipinti degli attori nani, chiamati ad impersonare i burattini di Mangiafuoco e il grillo parlante (il già attivo al cinema e in televisione Davide Marotta). Se nella direzione degli attori Garrone si allontana quasi sempre dall’uso di semplici “facce da strada”, prediligendo un cast di volti noti (Barbara Enrichi, in un cameo, e Ciro Petrone, il Pisellino di Gomorra) ed iper noti ( Benigni, Proietti, Ceccherini e Papaleo) sui quali si gioca almeno in parte un senso di riconoscibilità e di affezione, il racconto classico segue un’andatura solo apparentemente lineare.

 

Più volte è possibile notare elementi che rileggono pedissequamente il testo di Carlo Collodi, aiutati da una fotografia volutamente poco accesa: i capelli della fata Turchina e l’avvicendarsi delle età sulla sua figura, l’impiccagione di Pinocchio al Campo dei Miracoli, qui anticipata da una sequenza onirica dell’albero carico di monete dall’impattante potenza immaginifica, e soprattutto il ritorno del Pescecane. L’antro umido e cavernoso in cui Pinocchio finisce e dona un nuovo significato al suo agire sembra infatti il compendio all’esplorazione di un mondo cupo, tetro, in cui la speranza resta attaccata ad un filo sottilissimo e i denti dell’animale sono inquietanti ma stranamente arrotondate tagliole di passaggio. Non più l’enorme e quasi confortevole balena di disneyana memoria dunque, quanto un luogo semovente in cui si annidano tremori e angoscia, cenno ad una realtà esterna astringente. Il film aveva già disseminato di segnali sinistri le avventure del bambino di legno, offrendo un punto di vista obliquo rispetto al romanzo, mutuato forse dallo sguardo di spettatori contemporanei: in tal senso la violenza fisicamente ostentata del maestro non ha la valenza esortativa del libro ma resta fine a se stessa, segnale non isolato di un’età adulta sorda e non comunicante con l’infanzia e la prima adolescenza di cui Pinocchio si fa stereotipo. Adulti e ragazzi restano dunque distanti, se non con poche eccezioni rappresentate dall’iperumano puerile e insieme antico della fata, prima bambina e poi donna ma forse semplicemente “spirito” custode (Marine Vacht, da adulta), dal burbero ma umanissimo Mangiafuoco (Proietti) e, in modo non troppo consueto, da un Geppetto che dispensa amore e consigli con genuina ingenuità , finendo per sembrare l’accudito e non più l’accudente. Più di una volta l’uomo è infido, predatore, non tanto nella stolta figura del maestro quanto nell’iconico ghigno melenso dell’Omino di Burro (Nino Scardina) o nell’umanità – animalità derelitta del Gatto e della Volpe.

 

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Come accade per l’ipnotica lentezza del Pescecane, la cui dentatura lievemente smussata non riesce realmente ad atterrire chi guarda, le scelte stilistiche e la destinazione iniziale della storia lasciano traccia di un’opera accurata e godibile ma non troppo affilata nell’inoltrarsi tra le brutture del mondo trasfigurato dalla magia, pur nei lievi sommovimenti provocati da alcune scene in cui si insinuano interrogativi più che profonde e durature inquietudini. In tal senso, il film non sembra centrare un target preciso e a trasformarsi in un prodotto commerciale, rischiando di lasciare indifferenti giovani spettatori visivamente non troppo allenati (i cosiddetti “fanciulli”, i coetanei di Pinocchio o già di lì) o di costituire un sovraccarico emotivo e visivo per i piccolissimi. 

 

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Scheda

Titolo:  Pinocchio

Regia: Matteo Garrone

Lingua: Italiano, Inglese

Produzione; Italia, Francia, Gran Bretagna

Genere: fantastico, avventura

Anno: 2019

Durata: 125′

Soggetto: Carlo Collodi (tratto da Le avventure di un burattino, 1882)

Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Cecceherini

Scenografia: Dimitri Capuani

Fotografia: Nicolaj Bruel

Montaggio: Marco Spoletini

Musiche: Dario Marianelli

Costumi: Massimo Cantini Parrini

Trucco: Mark Coulier

Storyboard: Giuseppe Liotti

 

(Voto 7 +)