Mulan

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Lingua originale
inglese
Paese di produzione
Stati Uniti d’America
Anno
1998
Durata
88 min
Genere
animazioneavventuracommediadrammaticostoricomusicale
Regia
Tony BancroftBarry Cook
Soggetto
Robert D. San Souci
Sceneggiatura
Rita HsiaoChris SandersPhilip LazebnikRaymond SingerEugenia Bostwick-Singer
Produttore
Pam Coats
Casa di produzione
Walt Disney Feature AnimationWalt Disney Animation Studios
Montaggio
Michael Kelly
Musiche
Jerry GoldsmithMatthew Wilder
Scenografia
Hans Bacher

“Non ci sono più principesse Disney caucasiche dal 1991”, affermava il personaggio di una fiction ormai storica[i] prima che le “congelate” Anna ed elsa segnassero il ritorno del rinascimento disney trasposto all’epoca Pixar, ma a ben vedere prima anche delle meno fortunate Rapunzel e Merida di The Brave.

Belle di Beauty and the beast era stata infatti  l’ultima principessa bianca “acquisita” per nozze regali della tradizione Disney, strappata a forza dalla favola reazionaria – come tutte –  di Perrault e calata in un universo fiabesco in cui riscattare il vissuto delle innumerevoli fanciulle in pericolo. Sebbene prima di Belle numerose eroine Disney avessero già mostrato, pur nella ristrettezza delle aspirazioni, un inaspettato cipiglio è innegabile che il periodo del cosiddetto “Rinascimento Disney”abbia segnato il ricorso ad un approccio al lungometraggio-cartoon modernista, incline all’ ironia e al rimodellarsi dei cosiddetti “modelli femminili”. Aveva sognato meravigliose avventure innalzandosi sulle ali dell’immaginazione, pur restando in parte confinata nello stereotipo della lettrice inattiva e coronando la sua storia nel trionfo della generosità nei confronti del padre, prima, e dell’amato, poi. Prima, Ariel de La sirenetta aveva abbandonato la casa subacquea e le regole paterne per l’esotico regno “all’asciutto”, pur sempre spinta dall’amore per un uomo. Dopo la fine dell’epoca dei grandi successi la Disney arrancava e tentava nuove strade nell’esplorazione di diverse etnie e contesti socio culturali (Pocahontas, Esmeralda de Il gobbo di Notre Dame e la non-principessa Greca Megara in Hercules) fino alla fine del decennio: nel 1998 i registi Tony Bancroft e Barry Cook si spostano in Cina, e attingendo all’ iconografia esotica il disegno muta e si fa meno classicheggiante, più espressionista .

I corpi appaiono scattanti, meno flessuosi, quasi ad anticipare con forza il disegno della Pixar e le sue sproporzioni espressive e vitali. Grandi le teste e gli occhi, pur ingentiliti dal taglio a mandorla, giganteggianti pance e volti che sembrano stagliarsi su un palcoscenico di antiche commedie latine. Mulan è esplorato alla leggenda cinese dell’eroina Hua Mulan[ii], trascritto in un poema e in numerose trasposizioni cinematografiche ma reso celebre solo grazie alla sua versione animata e velocizzata.

Aggirando il falso storico con un’abile mescolanza di elementi pittorici e un cromatismo inusuale gli animatori ambientano la storia in una Cina alla fine della dinastia Sui (nel 600 circa), periodo di invasione da parte degli Unni, ma allo stesso tempo non rinunciano alle cornici spettacolari antropiche e alla la natura cangiante e pacifica di foreste di bambù, anche innevate: compare infatti la Grande Muraglia, costruita diverso tempo dopo, e persino fuochi d’artificio, di mille anni più giovani.

In questi ambienti rocciosi e incontaminati, segnati dal passaggio dell’uomo che ne magnifica la maestosità, si snoda un’altra storia di formazione. La giovane Mulan è una ragazza maldestra, poco aggraziata e soprattutto “troppo magra”, che fallisce il test ordito dalla famiglia e da una caricaturale mezzana per valutarne la capacità di essere una buona moglie, e in seguito anche una buona “fattrice”. Imbellettata in abiti da cerimonia e sbiancata innaturalmente da un trucco che ne nasconde le fattezze, Mulan è così protagonista della scena dell’”iniziazione delle fanciulle” , che mette alla berlina secoli di tradizioni radicate non solo nell’estremo oriente. Si tratta di una sequenza veicolata da un siparietto ridanciano e chiassoso, ma con una controparte tetra sempre in agguato. Nella canzone “Riflesso”, affidata nella versione filmica alla cantante filippina Lea Salong e in quella commerciale ad un’esordiente Christina Aguilera, esplode in una malinconica protesta la voce della protagonista, il cui volto grazioso e infantile si scinde in un’evocativa lavatura: da un lato la maschera imbiancata e appesantita della desiderabilità convenzionale, ovvia ma potente allusione a tutte le maschere imposte o autoimposte che bambine e bambini cominciano ad indossare sul crinale dell’adolescenza, dall’altra il viso nudo, vivace, risoluto emerso dal rituale di purificazione. Ad accumulare  ulteriormente le prospettive del “riflesso” interviene la spada, simbolo famigliare di oppressione che deforma le proprie origini facendosi artefice della nuova vestizione di Mulan, non più futura sposa ma combattente.

Come narra la leggenda a cui è ispirata, la storia vede infatti Mulan prendere il posto del proprio padre, ormai anziano, tra gli uomini chiamati alla battaglia per difendere la Cina dall’imminente invasione Unna, omettendo il particolare della leggenda secondo cui Mulan avrebbe preso il nome (Fa Ping) di un fratello minore.

Non può non intervenire l’elemento magico, ancora una volta ammantato di ridicolo sotto forma del drago Mushu, uno spirito guida ovviamente pasticcione e in disgrazia che farà da eco alla goffaggine   della stessa Mulan, il cui sgraziato atteggiamento “en travesti” presenta tutti gli stereotipi del caso: finta voce grossa, camminata innaturale, prevedibili pudori come nella scena del rischioso disvelamento durante il bagno al lago.

Se la battaglia sulla neve con il nemico finale, un capo degli Unni dall’aspetto eccessivo e stilizzato al punto da stemperare la sua carica demoniaca ed inquietante (il colorito mortuario, gli occhi infuocati) corrisponde ad uno snodo essenziale nella narrazione, l’anima del film sembra però risiedere nella guerra contro lo sradicamento delle gabbie imposte dal genere, altalenante e arricchita da momenti ilari e inattesi. Il mascolino Li Shang, cantore di uno dei brani più energetici del film, oltre a non riuscire a plasmare in pieno i buffi e inadeguati guerrieri del suo accampamento, si ritrova a gestire una malcelata e ambigua affinità nei confronti del suo soldato più debole, in scene in cui gli sguardi tradiscono una crescente ammirazione per Ping/Mulan mista ad attrazione omoerotica.

Sarà lo stesso comandante ad accettare con maggior ritardo la scoperta della vera identità della ragazza, e solo dopo la creazione di uno stratagemma bellico ulteriore: in un edificio che ricorda molto la scintillante Città Proibita della dinastia Ming (altro slittamento storico ben studiato dagli animatori) Mulan affronterà un redivivo Shan Yu con l’aiuto dei suoi compari Yao, Chien Po e Ling, che per l’occasione ribalteranno il teorema del machismo vincente di cui la stessa Mulan si è rivestita adoperando una strategia ingannevole e “femminea” (si ripropone il motivo del travestitismo, questa volta in chiave comica). Ritorna ancora una volta il tema dell’autoaffermazione,  nella sua declinazione universale ma anche inaspettatamente femminile, con l’ingegno individuale supportato da spirito di squadra e acrobazie coreografiche, che abbandona il realismo come nella tradizione dei film d’arti marziali e si impone sull’ottusa esaltazione della prestazione meramente fisica e virile.

[i] Si tratta di una frase del personaggio Jenna Maroney, attrice comica e primadonna capricciosa dello show meta televisivo ideato da Tina Fey 30 Rock, in onda sulla NBC dal 2006 al 2013.

[ii]  Il poema La ballata di Mulan, che descrive la vicenda, è attribuito al filosofo Liang Tao ed è stato scritto presumibilmente nel VI secolo d.C.

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