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Red

La pubertà incontra la storia familiare attraverso rituali magici ed esplosive riflessioni

Titolo originaleTurning Red
Lingua originaleinglese
Paese di produzioneStati Uniti d’America
Anno2022
Durata99 min
Genereanimazionefantasticocommediaavventura
RegiaDomee Shi
SceneggiaturaDomee Shi, Julia Cho
ProduttoreLindsey Collins
Produttore esecutivoPete Docter
Casa di produzionePixar Animation StudiosWalt Disney Pictures
Distribuzione Disney+
MusicheSceneggiatura

In molti storcono il naso di fronte ai riadattamenti Pixar e Disney di questi ed altri decenni. La magia della fiaba trasfigurata, per necessità o per marketing, verrebbe spezzata dall’evidente linearità del protagonista e della sua mancata evoluzione rispetto ad un progetto di vita- Progetto che non mancava ad eroine ed eroi del passato millennio, pur nel tradimento adattativo. Chi era e chi sarà la Mulan, così diversa da quella della leggenda, o meglio: sarà chi è sempre stata o cambierà, come nei più classici coming of age. La Pixar, come spesso accade, non si affida alla fiaba né alla saudade per un tempo lontano mai realmente esistito ma dopo un rinnovato interesse nei confronti delle proprie produzioni si cala nella realtà del passato individuale di una dei suoi autori. Un passato non glorioso, affiancato ad una rievocazione storica recente da riscattare, ravvivandola però con l’ironia già radicata in molte pellicole. La regista sino canadese torna indietro di 20 anni, a quel 2002 in cui le preadolescenti grattavano goffamente la patina delle convenzioni, le abbracciavano e riemergevano dall’abisso con abiti sgargianti e improponibili. Si riappropria dell’estetica da polaroid e dell’ovattata era musicale  delle boyband, segnale di allarme nel passaggio all’adolescenza piena e feticcio da cui discostarsi gradualmente di fronte all’imminente ascesa del primo, vero e carnale interesse amoroso. La protagonista Mei Lin si presenta con una struttura disegnata con linee morbide, un abbigliamento volutamente antiquato rispetto a quello delle sue coetanee – persino rispetto a quello delle sue amiche, come lei “outsider” – e un’energia emotiva incontenibile che esplode al contatto con le rigide tradizioni di famiglia. Si muove al ritmo sincopato delle occidentalissime sonorità R’n’B di fine anni ‘90 – inizio 2000 ma allo stesso tempo risente di quelle trasformazioni psico-fisiche stilizzate care, forse, all’immaginario di anime e manga. Stelline negli occhi, flussi ed effetti fumosi che arricciano, allungano, cancellano il naso e allo stesso tempo scavano nei terreni più scivolosi dell’imbarazzo, nell’egoismo insito nella necessità di autoaffermazione e nelle piccole meschinità quotidiane.

Meilin con i capelli neri, prima della trasformazione in panda rosso

La storia di Meilin è soltanto sua, così personale e peculiare da tratteggiare con precisione un’età e la sua collocazione all’interno di un bizzarro e onirico rituale di famiglia. Il tenero ed enorme panda rosso in cui si trasforma rievoca, nel colore e nell’espressione, tuta una serie di rimandi scontati e più sottili, psicologici e storici. La rabbia e la seguente rassegnazione, non trovando pace, assumono le sembianze cartoonesche ed infiammate tanto vicine al piccolo personaggio di Inside Out, superandone la caratterizzazione. La deflagrazione e successiva riconciliazione passeranno allora per un’affastellamento peloso che comprime l’inquadratura, fattasi cupa. Il personaggio ha bisogno di crescere, ma non lo farà attraverso il tipico romanzo di formazione poiché cercherà di adattarsi al mondo ma, allo stesso tempo, di costruire per sé un angolo speciale e diverso da qualunque altro. La sottile carttiveria. I cedimenti e le altalene “ormonali” di una ragazza come le altre riescono allora a suggerire e a dipingere un essere umano del tutto originale, scontrandosi con il mondo alieno e allo stesso tempo conformista al suo interno rappresentato dalla madre.

Turning red racconta il cambiamento obbligato dell’adolescenza con toni apparentemente leggeri pur rivelando, a tratti, l’essenza turbolenta e fortemente drammatica dello stesso, suggerendo, senza alcun appesantimento didascalico, l’inusitata forza regressiva della repressione e la difficoltà della comunità di origine cinese nel difficile percorso ibrido tra “mantenimento” ed inclusione. Allo stesso tempo percorre una strada di disvelamento della psiche femminile in formazione, suggerendo con immagini giocose il flusso dei pensieri e l’affacciarsi simultaneo di sentimenti e descrivendo le contraddizioni dei primi veri legami tra ragazze. Con Red Domee-shi sembra sviluppare in forma narrativa e compiuta il piccolo e poetico corto “Bao”, in cui l’amore materno passava attraverso una bizzarra rivisitazione culinaria ed un inquietante istinto cannibalesco, simbolo della norma genitoriale che, incapace di autonormarsi, fagocita letteralmente i propri figli.

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Opopomoz

Manifesto italiano del film
<p class="has-drop-cap" value="<amp-fit-text layout="fixed-height" min-font-size="6" max-font-size="72" height="80">Nasce da una lezione di Lotte Reininger l'amore di Enzo D'alò per l'animazione, così come spiegato in questa lunga <a href="https://www.youtube.com/watch?v=SgVlzDrx88g&ab_channel=DarioMocciaChannel">intervista</a&gt;. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista napoletano trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo <em>La gabbianella e il gatto</em>. Non è così in <em>Opopomoz</em>, primo film animato diretto da D'Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul <a href="https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/film/opopomoz.htm&quot; data-type="URL" data-id="https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/film/opopomoz.htm">doppiaggio</a&gt;, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l'accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare "sfondo".Nasce da una lezione di Lotte Reininger l’amore di Enzo D’alò per l’animazione, così come spiegato in questa lunga intervista. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista napoletano trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo La gabbianella e il gatto. Non è così in Opopomoz, primo film animato diretto da D’Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul doppiaggio, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l’accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare “sfondo”.

Opopomoz” e una Napoli magica - Mar dei Sargassi
Un’immagine -bozza del film: la passeggiata delle due famiglie nella via dei presepi (S.Gregorio Armeno) a Napoli

Il piccolo Rocco, con l’aiuto di una dolce cuginetta, si inabissa nel luogo – non luogo per eccellenza per sfuggire alla percepita indifferenza dei suoi genitori, appena “investiti” dall’arrivo di un fratellino che sembra fagocitare le attenzioni di tutti, persino quelle dei lontani parenti. Il presepe, simbolo e fardello di una fede talvolta più mostrata che vissuta, ma anche oggetto d’arte minuziosa e ostinata come accade nelle vie centrali della vecchia Napoli, assume l’indicibile sembianza di mondo altro: è un nuovo luogo animato dalla magia, o forse persino dalla malìa blasfema di due diavoli cartooneschi e maligni che spingono il ragazzino ad invischiarsi in vicende più grandi di lui. Il presepe diventa, dunque, terreno di gioco in cui i personaggi, fino ad un momento prima ineluttabilmente immobili per volere dei grandi, prendono vita e raccontano le loro numerose ed interessanti storie. Il significato religioso, pur presente, appare dunque come un semplice spunto per narrare una vicenda umana ancora più vasta e insondabile come quella dell’amore-odio che lega bambini ad adulti, bambini a bambini. La mancata nascita di Gesù indica, forse troppo smaccatamente, la difettosa accettazione della nuova entrata in famiglia. L’arduo percorso di riconciliazione con i propri affetti e con parti nuove e più profonde di sé passa per incursioni metafisiche e simil-storiche attraverso varie tappe, scandite dal soul contaminato e sognante di Pino Daniele e dalle voci, non solo parlanti, di villain maestosi come Sua profondità /Peppe Barra.

Le pulsioni negative, ridicolizzate nella loro teatralità esplosiva e accostate al roboante mondo subterraneo, vengono così esorcizzate nel viaggio del giovane protagonista, sempre in ascolto del suo lato oscuro pur nell’andamento carezzevole del suo percorso.

Lingua originaleItaliano
Paese di produzioneItalia
Anno2003
Durata76 min
RegiaEnzo D’Alò
SoggettoEnzo D’Alò, Umberto Marino
SceneggiaturaEnzo D’Alò, Furio ScarpelliGiacomo Scarpelli
ProduttoreLuigi Musini e Roberto Cicutto
Casa di produzioneAlbachiara, Rai Cinema, DeAPlaneta
Distribuzione in italianoMikado Film
MontaggioSimona Paggi
MusichePino Daniele
ScenografiaMichel Fuzellier
Art directorAlessio Giurintano
Character designWalter Cavazzuti
AnimatoriStranemani
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Dililì a Parigi

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Regista: Michel Ocelot
Genere: AnimazioneFamily
Anno: 2018
Paese: Francia, Belgio
Durata: 95 min
Data di uscita: 24 aprile 2019
Distribuzione: Movies Inspired 

Michel Ocelot torna a incantare con i suoi disegni bidimensionali, vivacizzati da una sovrapposizione tecnica e tematica, in una storia che interseca realtà e voli fantastici.

Ocelot, classe 1943, condivide parte della biografia artistica e professionale con molti animatori della sua generazione: alcune serie televisive negli anni ‘80 e ‘70 e poi l’approdo al lungometraggio, assai più tardivo, dopo numerosi viaggi ed esplorazioni non solo letterarie e prima di inusuali collaborazioni (il videoclip per Bjork Earth intruders). Nato vicino Nizza e in costante contatto con il sud del mondo, espleta le sue suggestioni artistiche e pittoriche con il primo film animato Kirikù e la strega Karabà, il cui successo darà vita a due seguiti, ma è riconosciuto anche per Azur e Asmar, fiaba che tenta la fusione tra la tradizione narrativa occidentale e quella mediorientale.

Le figure di Michel Ocelot sono, anche in quest’ultima opera, vere e proprie figure, sagome non materiche che si stagliano su scenografie quasi completamente immobili, animate solo dal passaggio degli esseri umani e non. Una bidimensionalità ricercata, che trascende il semplice rifiuto della computer grafica (già attiva e in crescita ai tempi del primo Kirikù) ma che inscrive piuttosto nell’anelito narrativo: i personaggi sono come le essenze in movimento estratte dalle pagine di un libro, da un quadro, da una pittura rupestre, vivificati dal soffio della parola, dal suono e dalle storie che hanno urgenza di mostrarci.

Con un movimento di macchina all’indietro scopriamo presto che l’Eden splendente di verde e di natura in cui si aggira la piccola Dililì, kanaka alle prese con una vita primitiva insieme agli adulti del suo villaggio, altro non è che un quadro vivente delimitato da una recinzione, al di là della quale si accalcano gli occhi curiosi del pubblico parigino. La protagonista è dunque l’attrice di una sorta di presepe vivente o meglio di uno zoo umano, forse un’aberrazione per i moderni, ma una volta uscita dal suo quadro vive un’esistenza assai inconsueta: è assistita, curata ed educata da una nota personalità socialista dell’epoca, la signora Louise Michel(siamo tra il 1889 e gli inizi del ‘900), restituita ai nostri occhi con tratti realistici direttamente traslati dalle fotografie in bianco e nero.

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La ragazzina, vestita di bianco e d’oro e opportunamente leziosa, con il suo delicato inchino e la sua presentazione vagamente ironica, è quindi una piccola donna curiosa ed attiva, desiderosa di partecipare alla vita del suo tempo. Per farlo trova un amico insolito, il cui agire in una trama strettamente realistica ci apparirebbe come sospetto: è il fattorino tardo adolescente Orel, dagli occhi di ghiaccio, genuinamente interessato all’amicizia di Dililì ma totalmente scevro da sentimenti morbosi e inadeguati alla sua giovanissima età.

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Insieme si troveranno coinvolti nel vortice di un giallo, collaboratori in un’indagine sui casi di misteriose sparizioni di ragazze giovanissime e bambine nella città di Parigi. È un vortice che necessita, almeno in parte, di un distacco dal disegno simil geroglifico che ricordiamo anche in Azur e Asmar: i volti di Orel e della bambina, sospinta nel carretto a due ruote, si animano e si incupiscono con dovizia di particolari, in una caratterizzazione che va oltre l’essenzialità perseguita altrove, e lo fanno in una città intatta e meravigliosa, miracolo d’arte e di architetture sia nei vicoli delle scene diurne che nelle grandi piazze e nella resa dei monumenti in notturna. Appare evidente l’utilizzo di immagini fotografiche accanto ad accenni di computer grafica, in veri e propri tour virtuali in una Parigi dal vero per la quale si potrebbe utilizzare in senso pieno e positivo la vecchia espressione denigratoria di “città da cartolina”. Si tratta però di una vocazione turistica nobile, di un vagheggiamento nostalgico che non stride con le accurate pitture animate degli interni, delle periferie e delle campagne “maledette”.

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Sarah Bernhardt

Appare cruciale, allora, anche l’utilizzo delle comparse e l’interazione appassionata e originale che i due hanno con gli intellettuali parigini dell’epoca: un giovanissimo Picasso abilmente caricaturizzato, così come i colleghi fauvisti, la raggiante e languida Sarah Bernhardt, la cantante d’opera Emma Calvè, vera e propria coprotagonista, che stupisce Dililì con un primo vero abbraccio, effusione ignota alla piccola. È proprio nel palazzo della splendida e altera diva che la realtà così vicina si trasfigura, prima in un’immensa piscina al chiuso illuminata da luci azzurre e poi in un’esplorazione delle fogne cittadine.

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(Sopra: la celebre scienziata Marie Curie, a sinistra, in una gif tratta dal film insieme a sua figlia, a destra in una foto)

C’è una parte della città, o forse dell’umanità, che fa il tifo per Dililì e per le ragazze scomparse e si coalizza armoniosamente intorno a lei, a tratti divertendola ed estasiandola con ripetuti, sovrabbondanti omaggi all’arte, alla letteratura, alla politica e alla storia. Sono tantissimi i personaggi citati, fino al punto che è quasi impossibile ricordarli tutti. Quest’umanità dipinta da colori poco ombreggiati, a misura dei bambini che guardano, si contrappone allora nettamente agli antagonisti, la società dei Maschi Maestri. Di giorno questi esseri si confondono tra uomini distinti vestiti di nero, quel nero così bizzarro per l’osservatrice Dililì, ma dopo una prima iniziazione vengono promossi con un vistoso anello al naso e hanno volti grotteschi, ingialliti, adunchi. Non sopportano le donne e le bambine, e il loro piano e le relative motivazioni atterriscono nella loro stolta assolutezza, scoperchiata e sconfitta in modo eroico da un connubio di umanità e visioni avveniristiche, come il gigantesco dirigibile che si staglia nel cielo blu, in partenza dalla giovane Torre Eiffel. I Maschi Bianchi, terribili e ridicoli insieme, hanno però appoggi anche ai “piani alti”, ad esempio tra le alte cariche della Polizia.

Inquietante è il loto trattamento delle bambine (e delle donne, rapite in passato) prigioniere nel mondo sotterraneo, costrette a muoversi a quattro zampe, accecate da un sacco nero che le riduce ad esseri larvali, impotenti, assoggettate ad un potente indottrinamento.

Dililì affronta la sfida per riappropriarsi anche un po’ di sé, della sua crescita incerta, degli sguardi pungenti dei suoi connazionali che la giudicano “troppo bianca” e dei francesi che la vedono invece “troppo nera”, riportando allo stesso tempo al centro il discorso su un cammino inesorabile della storia che forze occulte (ma non troppo) vorrebbero riportare insieme, cammino fatto di emancipazione femminile e dell’infanzia. Gli accenni cupi e inquietanti ai possibili risvolti della storia si disperdono, cautamente e in modo fluido, rendendo il film meno stratificato ma maggiormente fruibile per un pubblico di giovanissimi, per i quali resteranno negli occhi la pedalata collettiva delle bambine in cielo, verso i propri cari, e le variopinte coreografie finali, oltre alla guida di un’eroina vispa e spontanea, mai realmente dimentica del suo essere bambina. Ocelot resta dunque nei meandri del film morale, infondendo un sentore di speranza ai giovani spettatori in modo diretto e comprensibile, senza impantanarsi nel mero didascalismo.

(recensione presente anche su filmtv.it )

Voto: 7,5

Età consigliata: dai 6 anni

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Shrek 2

SHREK 2

 

 

 

 

 

Il seguito del fortunato Cartoon Dreamworks, dai tratti rivoluzionari, non stupisce ma risponde alle aspettative

Quando ci si trova davanti ad un immenso calderone favolistico e digitalizzato come Shrek (2) si desiste facilmente da ogni torpore pseudo analitico, per lasciarsi travolgere dalle comiche incalzanti che abbandonano la derisione epica del primo film. Il gioco di rimandi e familiarità comincia con l’ammiccare divertito e sarcastico al Regno di Lontano Lontano, un boulevard simil-hollywoodiano dalla tipica spazialità fintamente avvolgente. Un luogo adatto alle costruzioni ironiche, all’ansia decostruttiva di quei miti cartacei qui ancora più evanescenti, perché pixelati.

Lo splendore novello di uno Shrek umano dal volto quadratamente noto, e il suo eterno combattimento contro quella leziosa bellezza e “umanità”, incarnata dall’odiosa Fata Madrina “canterina” come nella peggiore delle tradizioni disneyane, e dal vuotissimo figlio di lei, Azzurro (Charming nella versione originale). Quei tratti insidiosi, quell’invadenza da spot in cui non possiamo fare a meno di riconoscere i frammenti chiassosi del jet set da bolle di sapone contrastano ancora una volta con la festa di note rivisitate, con l’universo retrospettivo del fantasy e delle sue eterne dinamiche: la locanda tra il western e l’assurdo frequentata dai secolari personaggi di sempre, tra cui un Capitan Uncino pianista sperimentale pericolosamente somigliante a Frank Zappa, ma soprattutto quel coacervo di sinuosità e buffa tenerezza costituita da un ispanico ed inedito Gatto con gli Stivali, che usa il suo stesso aspetto accattivante come arma contro gli “stolti” e oscilla tra la fanfaronaggine e l’affermazione di un’animalità riscoperta, autentica, antropomorfa in modo primigenio.

Lo stesso finale, ricondotto all’abilità da mattatori del Gatto e del vulcanico Ciuchino, fa esplodere quella pungente polvere di stelle e libera dal fittizio la risoluta Fiona e suo padre, restituendo loro una forma “interiore” apparentemente grottesca ma gustosamente armonica e libera. (recensione già pubblicata su cinemovie.info )

Titolo: Shrek 2 2

PRODUZIONE: USA

ANNO: 2004  

GENERE: Animazione

REGIA: Andrew Adamson, Kelly Asbury, Conrad Vernon

CAST: Shrek (Mike Myers – Renato Cecchetto), Ciuchino (Eddie Murphy – Nanni Baldini), Principessa Fiona (Cameron Diaz – Selvaggia Quattrini)

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Mary e il fiore della strega

Ipercromatica pellicola che si poggia sulle orme ben calcate dello Studio Ghibli e punto di partenza per nuove avventure

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A metà giugno nelle sale italiane esce come evento speciale Mary e il fior e della strega, iniziatore del neonato Studio Ponoc. Qualche giorno in più nei cinema rispetto a quelli riservati alle riedizioni di vecchi film Ghibli, ma un chiarissimo legame con il suo predecessore a partire dalla locandina, in cui una bambina dal volto paffuto e dall’espressione concentrata fissa lo spettatore a cavallo di una scopa.

La storia di Mary, ragazzina intorno ai dieci anni ospite in una sorta di pensione per le vacanze, segue l’andamento semplice di molti percorsi di scoperta e riscoperta di sé, con l’esplorazione di scenari e foreste magiche iniziata dalle curiose evoluzioni di un gatto. Mary scopre i “fiori blu” e lo strapparli provoca un momentaneo sconquasso nella natura e nella saldatura tra mondo reale e fantastico.

La bambina si trova costretta a divenire una strega, a crescere cioè in maniera inaspettata attraverso l’acquisizione di nuove sembianze, nuove strategie, una nuova identità. La bizzarria dei suoi insegnanti, così leziosi nel sottolinearle il suo essere un'”eletta”, sottende però malignità, esperimenti, desiderio di dominio che è tipico di un’età adulta virata al post-umano, o meglio al “disumano”. Con l’aiuto di un nuovo amico e dei legami con il passato, incisi in un vecchio libro, Mary riuscirà a sventare un piano malvagio e ad accettare che la “magia” della vita può assumere tratti più delicati, evanescenti, ma allo stesso tempo più sfumati e reali.

Volare ed essere i maghi più potenti del mondo, per poi tornare ad essere bambini che sognano e che accettano la natura irraggiungibile dei sogni stessi: è questo forse il nucleo tematico del film, che si svolge attorno all’incostante corpo dei desideri umani, mutevoli nel passaggio tra le stagioni della vita eppure solcati da una sorta di traccia netta, di linea infuocata ed invisibile.

L’infuocato colore dei capelli della protagonista, colore da strega (come sottolineato anche da altre fonti), l’incendio del flash back iniziale e i dettagli di paesaggi e figure si aprono alla vitalità cangiante del disegno, capace di far nascere dal nulla mostri fatti d’acqua, isole sospese in un cielo nuvoloso e irrorato dal tramonto, un’architettura futuristica e ariosa. Graficamente pieno, denso e straripante, Mary e ilfiore della strega incanta a tratti alternando il dinamismo delle battaglie, le lente metamorfosi (animali ed esseri umani sono vittime di esperimenti terribili ad opera della direttrice e del professore del collegio) e le scene in cui i sensi sembrano distendersi, sospesi nella promessa di mistero e sorpresa: il vento che accarezza la foresta, la sua foschia , il brillio vivo e placido dei fiori.

La visione appare però sovraccarica più che coinvolgente per l’eccesso di rimandi: il viso (specchio del carattere) volitivo di Mary, non ancora delicatamente adolescenziale come quello di Kiki (consegne a domicilio)in parte simile a quello di Mei, capricciosa eroina de Il mio vicino Totoro. l’iniziazione stregonesca avvenuta quasi per caso, il demiurgo felino(La ricompensa del gatto), lo smarrimento fisico ed emotivo ed il legame con un ragazzo, complesso e reciproco (La città incantata e Kiki, consegne a domicilio) e  l’ambientazione britannica e la narrazione tipicamente occidentale: Mary e il fiore della strega è ancora una volta ispirato ad un libro di una scrittrice inglese, La piccola scopa di Mary Stewart (1992). Ed il passaggio tra il pensionato noioso e retrò e la scuola di magia, con tanto di esercizi sulla metamorfosi, sembra alludere fin troppo chiaramente a J.K. Rowling e alla saga di Harry Potter, fonte d’ispirazione principale della letteratura per ragazzi a partire dagli anni ’90(il primo libro è stato però pubblicato successivamente a °La piccola scopa).

Infine, i presagi sinistri, resi visivamente con stile efficace ed estenuante: la guerra, lo spregio della natura e delle sue creature, l’apocalisse, il desiderio di dominio e la magia che da potenzialità affascinante si fa strumento incontrollato ed inquietante (Nausicaa della valle del vento, Laputa  ): un elenco interminabile di suggestioni, omaggi, sottotrame che appesantiscono l’opera e ne minano la grazia infantile e giocosa, pur presente, sfumandone l’immagine e l’anima  e rendendola innocua ed indecisa. Godibile nelle trame essenziali e ricco nei contenuti e nella resa visiva, il film soffre nel tentativo di reinventare un’idea originale pur non liberandosi dell’ispirazione,  e riapre il dibattito sulle possibili e più o meno legittime forme della mescolanza, delle citazioni del “già visto”, del pastiche di canoni che dovrebbero riprendere vita e plasmarsi in una nuova forma.

Dirige Yonebaiashi, già noto per film forse più virati all’introspezione e all’intimismo come Arrietty e Quando c’era Marnie, canto del cigno (definitivo?) dello Studio Ghibli nel 2014, incerto sui sentieri più grossolani dell’epica e dell’avventura ma forse proiettato verso il futuro di un nuovo Studio.

Titolo originale メアリと魔女の花
Mary to Majo no Hana
Lingua originale giapponese
Paese di produzione Giappone
Anno 2017
Durata 102 min
Genere animazione, fantastico, avventura
Regia Hiromasa Yonebayashi
Soggetto Mary Stewart
Sceneggiatura Riko Sakaguchi, Hiromasa Yonebayashi
Produttore Yoshiaki Nishimura
Casa di produzione Studio Ponoc
Musiche Takatsugu Muramatsu

(voto 6, 5)

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L’animazione che canta: Sing,Oceania, Trolls e Rock Dog a confronto (Continua)

(…Continua)

Con Rock Dog e Sing, seppur completamente diversi tra loro, gli autori entrano nel territorio ormai confortevole del talent show.

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La prima pellicola, coproduzione cino-americana diretta da Ash Brannon e basato su una graphic novel di Zheng Jun Tibetan Dog, appartiene al filone dei romanzi di formazione applicati a personaggi animali antropomorfi, in cui l’avventura del protagonista ha il sapore di un percorso squisitamente individuale seppur mai individualista. Come nella migliore tradizione disneyana infatti ha un alter ego buffo, grottesco   e ben conscio del suo ruolo di spalla nonostante gli eccessi superomistici. La tradizione antropomorfa dell’applicazione dell’animalità ai caratteri attribuisce tenacia e fedeltà al pastore tibetano, giovane e sognatore, capace di comporre melodie dalla facile presa e immerso quasi suo malgrado in un mondo di luci stroboscopiche e spiazzanti, una metropoli orientale ipermoderna in cui potremmo facilmente riconoscere Shangai, Honk Hong e anche tratti di Tokyo. L’amico produttore è invece un gatto, a suo modo “sognatore” ma con tratti di cinismo e opportunismo più accentuati.  L’adolescente aspirante rock-star si contrappone al sogno di tranquillità e continuità portato avanti da suo padre, che come la specie suggerisce è un mandriano di pecore. Anche questa volta la versione italiana si affida a voci note nel doppiaggio e nella resa dei pezzi originali, pur arricchendosi nella colonna sonora non originale di brani non troppo inflazionati nel genere animazione. L’inclinazione “rock” del giovane Bodi si esprime forse maggiormente attraverso brani celebri dei Foo Fighters e persino dei Radiohead, più che nelle creazioni originali.

Con Sing di Garth Jennings, uscito anch’esso nel 2016 (per la Illumination), si abbandonano i luoghi esotici di Rock Dog, la pennellata cupa delle montagne tibetane contrapposta alla luminosità della grande città e si abbandona anche il rock in senso stretto. L’ambiente è più “usuale”, ma non per un film d’animazione: viene ritratta un’immensa Los Angeles, fatta di palme e viali alberati in zone di lusso ma anche di quartieri modesti, di sordidi anfratti e fascinosi teatri in decadenza. Ogni luogo mostrato è volto ad introdurre e ad esplicitare vizi, virtù e tratti genuini dei personaggi coinvolti in quello che ha l’ambizione di essere un film corale.

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Il repertorio torna ad essere essenzialmente pop, senza eccessive punte di trash – qualcosa resta: si pensi all’ammiccante esibizione delle “conigliette” e a quanto la mancata traduzione giovi in fondo ad una maggiore fruibilità da parte del pubblico infantile. Dopo un’introduzione sui vari personaggi coinvolti e sull’idea che il protagonista trova per risollevarsi dalla bancarotta, il cuore del film sembra risiedere nelle numerose esibizioni dei protagonisti per il provino, tagliuzzate e montate freneticamente frustrando in modo sapiente l’eventuale affezione di chi guarda. Anche in questo caso la natura ferina risolleva le sorti del film costruendo una simulazione di casting che è un’alternativa gustosa a quelli originali. Infatti, se nel talent-reality di personaggi in carne ed ossa si ricerca spasmodicamente la risata mettendo all’indice i difetti degli “scrutinati”e  facendo anche leva su una reale disabilità canora, qui le caratteristiche fisiche degli animali rincorrono la gag senza però risultare squalificanti nei confronti del loro pur manipolato desiderio di esibirsi:  il bravo cantante giraffa viene allora “eliminato” solo per la fretta di Buster che non riesce a comunicare per via del suo lunghissimo collo, le rane si autosabotano per battibecchi emotivi, le veloci scoiattoline che parlano e comprendono solo il giapponese si dimostrano inaspettatamente tenaci.

Fuori dal contest i calamari danzanti, coreografi e insieme luminarie viventi dell’ambizioso progetto finale che regala momenti suggestivi e onirici alla pellicola, altrimenti trainata da una rappresentazione “terrena”.

Il koala Buster Moon è una figura che in parte potrebbe richiamare il gatto – produttore- musicista di Rock Dog ma più complessa, con un buon mix di cinismo e ingenuità. Lo domina un sogno d’infanzia dei più ricorrenti: onorare la memoria di suo padre riportando in auge il suo vecchio teatro.

Riempiono la scena i sospiri adolescenziali, declinati in varie accezioni: il gorilla Johnny è figlio di un malavitoso (e in molti hanno storto il naso per questa associazione) ma pensa solo a cantare, e sua è l’esibizione sulle note di Elton John; la timida elefantessa Meena possiede una voce angelica e cristallina che più volte le resta strozzata in gola, come vuole il più frequente dei cliché riguardo alla ragazza comune – leggi ; grassottella – che vuole “farcela”, supportata da una famiglia invadente e più che allargata che fa quasi traboccare lo schermo. E infine c’è Ash, l’istrice che canta in duo con un fidanzato presuntuoso che non viene scelto, rabbiosa e “riot girl” quanto basta per bilanciare la zuccherosità dei pezzi che vorrebbero affidarle, nel cui timbro arrochito si potrà riconoscere Scarlett Johansson (che ha pubblicato alcuni dischi all’apice della sua carriera da attrice). Il “talent” è però più variegato, e se l’impeto giovanile sembra trainante interessante è il tentativo di coinvolgere altre fasce d’età, di varia provenienza sociale e necessariamente etichettate anche dalla specie. La scrofa Rosita, con i suoi 25 chiassosi maialini, è una parodia efficace di un trito e asfissiante menage coniugale stereotipato ma ancora presente nelle grandi città e radicato in molte culture, in cui la parte femminile sopporta la routine, la fatica dei lavori domestici e soprattutto il silenzio assordante di un marito assente. Il suo numero con Gunther,maiale obeso ed effeminato, con la rivisitazione parziale delle liriche di un famoso pezzo di Taylor Swift,  le permetterà di riappropriarsi di quella parte sopita di se stessa, delle sue pulsioni e della sua identità annullata dal non-sguardo degli altri. Il topo Mike è un sassofonista e cantante fallito, dalle suadenti movenze da crooner anni ’50 – la sua canzone finale è, ovviamente, il testamento musicale di sinatra My Way – la cui aggressività verbale tradisce i trascorsi di una vita da strada. La criminalità più o meno organizzata e gli equivoci finiranno per distruggere in parte i sogni di gloria di Moon.

Il finale vedrà ricombaciare tutti i pezzi del mosaico in modo più o meno scontato, fondendo in modo conciliante e vagamente confuso aspettative di adulti e bambini. Mirabolante, sfarzoso e più complesso di a quanto sembri, Sing sembra operare così la fusione tra i due mondi dell’intrattenimento, con la sua ricerca di una godibilità semplice ma non semplicistica, il suo gusto per le allusioni e i dopi sensi, non necessariamente di natura sessuale o “scadenti” in un umorismo becero pur facendo leva su istinti e reazioni ferine, avvicinandosi in tal senso alla multi-animalità di Zootropolis. Resta, in fondo, quel senso da sovraccarico di emozioni e di citazioni, difficili da amalgamare e astringenti abbastanza da non lasciare al film una traccia originale, un’anima indipendente e una nuova interpretazione del concetto di colonna sonora.

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Gli incredibili- Una  “normale” famiglia di supereroi

Età consigliata: dai 6 anni

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Sinossi: Bob ed Helen sono una coppia di ex-supereroi, sposati e con tre figli che già manifestano i primi superpoteri. Da 15 anni il governo ha vietato loro di utilizzare i superpoteri, visto il malcontento e le incomprensioni che le loro eroiche azioni scatenavano tra la gente. Un giorno però una misteriosa ragazza gli chiede aiuto per sconfiggere un minaccioso robot fuori controllo…

Sceneggiatura: Brad Bird
Fotografia: Andrew Jimenez , Janet Lucroy
Musiche: Michael Giacchino
Montaggio: Stephen R. Schaffer
Anno: 2004 Nazione: Stati Uniti d’America
Distribuzione: Buena Vista Durata: 115′
Genere: animazione

(Da Centraldocinema)

Il film di Brad Bird coniuga i due plastici e voluminosi protagonisti come le atmosfere,  i tratti e i colori di più generi, secondo quella che sta quasi assumendo le caratteristiche di una “scuola” dell’animazione 3d. Al di là delle manovre prevedibili da action movie tradizionale, e oltre i toni da commedia “adulta” calibrati sulle seduttive dinamiche timbrico- verbali dei personaggi, come negli aggraziati siparietti familiari conditi di battibecchi decisamente poco disneiani, o nella scena in cui il protagonista Bob e l’ex collega uomo-ghiaccio si appostano nella volante in attesa di avvistare un pericolo, come ai tempi d’oro. I loro volti sono schizoidi, ferini, holliwoodianamente umani, e nei loro corpi si inscrive la parabola del divertimento classico a caccia di un problema. Quest'”oltre” si realizza nell’illusione vertiginosa di un movimento fluido a 360 gradi, nella possibilità rocambolesca di dominare lo spazio virtuale non attraverso l’irrisorietà del disegno, ma tramite la straordinaria realtà di una sorta di macchina da presa immaginaria, che compie giri impensabili attorno e sopra i grattacieli, nel cuore degli inseguimenti nella foresta, attraverso le pareti cristalline dei campi di forza emanati dalla supereroina in erba Violetta, nelle gommose evoluzioni del corpo incorporeo di sua madre. Attorno a questa affascinante, ma ormai consueta ubriacatura visiva serpeggia un’ironia impensabilmente malinconica e destrutturante, rivolta al tramonto esplosivo dell’eroismo e dei suoi cartacei feticci-persona, che si riscattano, più che nelle nuove e mirabolanti missioni, nella fantasia di un’esistenza “normale”.

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Il mio vicino Totoro (seconda parte)

La casa e il bosco de Il mio vicino Totoro rappresentano un residuo territoriale che abbraccia presente e passato,modernità scolastica e lavorativa e tradizione. Tra le ante scorrevoli, il legno e il vetro della casa giapponese, e sotto i futon distesi, la famigliola incompleta vive una vicinanza innocente e rinvigorente, atta a far dimenticare la lontananza che il lavoro impone al giovane padre e l’assenza della madre, relegata per gran parte del film nei discorsi e nei toni ansiosi delle bambine, sospesa in un limbo speranzoso ma venato di tragicità. La campagna e il biancore della casa aprono fasci di luce sull’esistenza delle ragazzine, che affrontano la novità spiacevole con il trasporto e la capacità di rigenerarsi. Eppure i “mangia fuliggine”, come divinità intoccabili e rese geometriche nel loro imperturbabile, spaventoso avanzare, si annidano nei pensieri della bambina più piccola spingendola a risolvere il mistero del bosco e della campagna. Le anziane del villaggio, tratteggiate con la consueta grazia rilassata ed espansa, forniscono una temporanea spiegazione alle paure di Mei: i “mostri”, visibili solo da occhi innocenti, spariranno o fuggiranno quando le bambine di città si approprieranno dei nuovi ambienti con fiducia.

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Oltre il verde, oltre le risaie, Mei inventa un mondo fantastico che potrebbe essere vero. Custode dei “mangia fuliggine” è una creatura gigantesca, morbida come un enorme cuscino e imponente come una montagna, rassicurante e fornito di tratti dolci e tipicamente kawai ma allo stesso tempo misterioso, inquietante nelle movenze e nella forza dimostrata. L’albero, raggiungibile attraverso il tunnel, è la sua casa e il suo tempio, e il soffio di vita del suo risveglio è come vento, capace di innalzare la bambina al di là delle proprie vette immaginative. Totoro e i suoi seguaci, che ne ricalcano le forme stilizzate, accompagnano Mei nel bosco ma le forniscono la chiave per tornare a casa, oltre a regalare a lei e  a sua sorella Satsuki l’illusione pittorica di un rigoglio di piante che prende forma di notte, per magia, e che al mattino appare fortemente ridimensionato ma più tangibile ed emozionante, spogliato dal sogno.

Quando Mei si perde nella sua seconda fuga i colori del tramonto si tingono di un inusuale lirismo drammatico, di una luce rossastra violenta che scuote le sembianze veriste del bosco, mentre affiorano elementi disturbanti (la scarpetta pescata dal fiume) a squarciare la serenità bucolica con un tratto vivido, esplorato altrove dai cineasti dello studio (Totoro è contemporaneo di Una tomba per le lucciole). Il ritrovamento, toccante, della bambina, è affidato ad un ulteriore elemento magico. Totoro chiama per Satsuki il Nekobus, enorme gatto autobus dalla luminosità abbagliante e dal sorriso ferino e capace di volare correndo con le sue sei zampe possenti. Traspare ancora una volta la necessità di perdersi e ritrovarsi in un mondo misterico, questa volta esplorato attraverso gli occhi vigili e curiosi di una preadolescente molto simile ad altre protagoniste Miyazakiane, ricorrendo a figure zoomorfe di origine spirituale reinterpretate dalla fantasia infantile e della prima fanciullezza; figure da osservare e da toccare con prudenza, per superarne l’impatto sferzante e spaventoso e ricominciare a vivere nella realtà. Le figure adulte, volenterose e amorevoli ma frettolose, distanti, sono solo in parte iniziate a questa seconda natura, che si apprestano a contemplare attraverso i racconti filiali senza invaderla. Accade al padre, energico e affettuoso, e alla madre, la cui malattia è un ulteriore oggetto di mistero e contemplazione per la natura attiva delle sue figlie.
Le immagini finali riprendono gli elementi stilistici della sigla, in cui il gusto ed il cantato occidentale si fondono ad elementi musicali orientali e le creature – totem racchiudono una ritrovata unità familiare, contraltare moderno e solo apaprentemente opposto al percorso disperato narrato in Una tomba per le lucciole.

P.S. In uno dei cortometraggi proiettati all’interno del Cinema Saturno, sala del Museo Ghibli a Mitaka (Tokyo), il mondo di Totoro viene rielaborato senza troppi guizzi d’immaginazione, ma in modo concentrato e piacevole: nella breve trama Mei fugge nuovamente verso il suo magico mondo con l’aiuto di un minuscolo Nekobus, trainato dal vento, fino ad arrivare, tremando ancora un po’ (la sorpresa resta anche di fronte a creature conosciute, se queste si dispongono in modo inusuale), in un mondo sovraffollato di Totori e Nekobus trasportati da una creatura dalle dimensioni terrificanti e dal respiro ancor più spaventoso e profondo: è un gatto-dirigibile, vecchissimo e apparentemente ripescato tra i flutti di un mondo primordiale, ma comunque capace di apprezzare gli zuccheri “terreni” di una caramella offerta dalla piccola Mei.

Scheda:

Titolo originale となりのトトロ
Tonari no Totoro
Lingua originale giapponese
Paese di produzione Giappone
Anno 1988
Durata 86 min
Colore colore
Audio sonoro
Rapporto 1.85:1
Genere animazione, fantastico
Regia Hayao Miyazaki
Soggetto Hayao Miyazaki, Kubo Tsugiko
Sceneggiatura Hayao Miyazaki
Casa di produzione Studio Ghibli
Distribuzione(Italia) Lucky Red
Character design Hayao Miyazaki
Animatori Yoshiharu Sato
Montaggio Takeshi Seyama
Effetti speciali Kaoru Tanifuji
Musiche Joe Hisaishi
Scenografia Kazuo Oga
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Il mio vicino Totoro

Il mio vicino Totoro

 

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Un profilo aggraziato, tondeggiante e allo stesso tempo enigmatico campeggia su uno sfondo blu intenso: lo strano animale è il simbolo dello Studio Ghibli e inaugura la sua produzione nel 1988. Solo a 21 anni dall’uscita giapponese il lungometraggio di Hayao Miyazaki Il mio vicino Totoro arriva nelle sale italiane in una versione restaurata e doppiata, quando, cioè, il successo dello Studio è già consolidato. Il lungometraggio, della durata di 86 minuti, rappresenta in apparenza la schiera più debole della produzione dell’autore e dello studio, e questo per via delle tematiche e dei richiami ad un pubblico prettamente infantile, dunque meno stratificato. Una sorta di parentesi lieve dopo la durezza espressiva e la la complessità visiva di Nausicaa della Valle del vento, proiettato decisamente oltre l’infanzia.

La storia ha per protagoniste due sorelle di circa 4 e 11 anni, e nei loro volti è già possibile rintracciare quei tratti archetipici fortemente caratterizzanti che ritroveremo anche in altre pellicole: un viso leggermente allungato e una figura svelta per la sorella maggiore, uno paffuto e dominato dalle sue espressioni  in continua evoluzione per la più piccola. Tipici sono anche i visi degli adulti, dai tratti maggiormente induriti ma riconoscibili, e degli anziani, con nasi importanti e occhi allungati in fattezze atteggiate a stupore e rassicurante dolcezza. Le due bambine si trasferiscono in una casa di campagna assieme al padre, e solo più avanti nel corso della pellicola verrà svelato il motivo dell’assenza della madre. Solo i loro occhi infantili, e in particolare quelli di Mei, riescono a notare delle presenza che sfuggono al padre e all’anziana vicina, che però è consapevole di ciò che accade. Esserini di pulviscolo nero si agitano incessantemente sbucando fuori dalle fessure e da ogni infisso, dominando gli occhi strabuzzati di un’inizialmente terrorizzata Mei, L’accettazione di quel movimento e di quel ronzio inquietanti è il primo passo per orientarsi in un ambiente nuovo, durante la prima tappa di un processo di crescita in cui la sorella più grande affianca la piccola.

(Fine prima parte)

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The Brave (parte 2)

La scarnificazione del corpo appare quasi come un mezzo necessario per gli autori a far emergere l’anima del personaggio, una forza che viaggia infrangendo ogni ostacolo. Pur legata ad una tradizione lontanissima di magia ancestrale l’iperattiva figura di Merida appare come una freccia scagliata contro il destino ed i destini tutti, un modo inconsueto di convivere con la natura – esaltata, e quasi fotografica, è quella del paesaggio scozzese, verde e mai accogliente, quanto piuttosto impervio. La ragazza è descritta come un’emanazione ella volontà e del libero arbitrio, che vince contro tutto in un’estremizzazione delle potenzialità personali forse necessaria nel rivolgersi alla fascia di pubblico infantile. Se la natura femminile e giovanile non è univoca e non è opposta al maschile, come traspare dalla forza fisica e dall’abilità di arciera e cavallerizza della protagonista, la trama provvede però ad arricchire questa storia personale di iniziazione attraverso l’incontro con altre nature, incalzanti  sotto forma di ostacoli.

Gli ostacoli sono rappresentati, in primo luogo, dalla madre, figura canonica nella quale dominano i movimenti ampollosi e tonalità brune. Lo scontro con la madre sembra aderire a vecchi tòpos letterari con una schematicità fin troppo evidente, ma la novità quasi spiazzante nel microcosmo Disney  – che attinge molto spesso da fiabe celebri e secolari, pur modificandole – risiede proprio nella presenza viva e tangibile di Elinor. Elinor non è morta in circostanze tragiche lasciando sua figlia ad un mondo di padri assenti e matrigne crudeli, né però è una placida e inverosimilmente amorevole figura sullo sfondo, pronta a dispensare carezze e timidi consigli. La sua trasformazione fisica la aiuterà a maturare, una maturazione che testimonia l’importanza di un costante apprendimento in età adulta.

L’orso, icona mitologica e ponte tra il mondo terreno e quello degli spiriti – lo spirito del male irrompe con la mostruosa figura di Mor’du, dalle sembianze di un orso – è l’animale attraverso cui la madre Elinor scoprirà le caratteristiche di un mondo esterno sconfinato e spaventoso, non sempre controllabile ma con il quale convivere e comunicare. Particolarmente efficace, pur nel suo momentaneo abbandono da codici rassicuranti altrove rispettati dal film, è la scena in cui l’orsa – regina viene sopraffatta dalla propria intima e (ri)trovata ferinità e quasi aggredisce sua figlia,in un picco di immaginata violenza dopo il quale gli equilibri e i legami si ristabiliranno gradualmente. Durante il viaggio di reciproca riscoperta resteranno un po’ sullo sfondo le molteplici figure maschili: Re Fergus, rozzo ed amabile ma poco più che monodimensionale, i tre gemelli “terribili” e le effimere comparse come i pretendenti di Merida e i loro padri. Permane la situazione di un dialogo mancato, quasi ascrivibile alle rigide strutture dei lungometraggi d’animazione e alla loro necessità di alleggerire trame e personaggi per una maggiore fruizione. Le scarse sfaccettature nella presenza sullo schermo dei personaggi costituiscono forse un difetto in una pellicola come questa, capace comunque di far emergere in modo vivido le protagoniste e le interazioni intergenerazionali.

Scheda:

Ribelle

Titolo originale: The Brave

  • MONTAGGIO: Nicholas C. Smith
  • MUSICHE: Patrick Doyle
  • PRODUZIONE: Pixar Animation Studios
  • DISTRIBUZIONE: Walt Disney Studios Motion Pictures Italia
  • PAESE: USA
  • DURATA: 100 Min
  • FORMATO: 3D
  • ETA’ CONSIGLIATA: 4-9 anni

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