L’animazione che canta: Sing,Oceania, Trolls e Rock Dog a confronto

Nel primo Shrek (2001) la colonna sonora stessa nonché l’abbondare di momenti romanticamente “spezzati” irridevano la petulante – eppure altamente iconica – tradizione Disney di accompagnare ogni momento cruciale della narrazione con un commento musicale. Eppure il ricorso a temi aspiranti ad un posto nell’immaginario collettivo non sembra aver risparmiato nessuna delle grandi case di distribuzione di lungometraggi animati, pur con modalità differenti.

L’annata cinematografica 2016-17, non ancora conclusasi, ha visto alternarsi moltissimi titoli pronti a competere tra loro sul mercato dell’animazione. Come il già citato Shrek insegnava, la sfida maggiore non riguarda più il più o meno forzoso “trascinamento” di infanti nelle sale, quanto una tacita e rinnovata complicità degli adulti accompagnatori, immaginati non più come mere appendici robotizzate e riluttanti quanto come possibili interlocutori del discorso cinematografico. Genitori più attenti, o forse solo più preoccupati, da intrattenere con la promessa di un accennato rovello morale o più semplicemente con frammenti di uno spezzettato sogno proibito: il ritorno all’infanzia, mescolato con sprazzi di mode adolescenziali e “cheap thrills” musicali dal sapore vintage. Ed è forse proprio uno tra i titoli più recenti ad incarnare al meglio questo bizzarro connubio di generi ed aspettative: Sing di Garth Jennings prodotto dalla Illumination (costola della Universal che aprì i battenti nel 2010 con il celebre Cattivissimo me),  casa produttrice anche del recente Pets, colonizza occhi e orecchie per una manciata di secondi e sembra portare l’ibridazione tra fasce di riferimento oltre ogni aspettativa. Ma del film, per mere questioni cronologiche, parleremo più avanti.

Siamo oltre la perenne sfida distributiva tra i colossi Pixar e Dreamworks, dominanti per molti anni. A riguardo scrivono in molti: se la (Disney) Pixar costruisce il film partendo dalle trame e dall’idea di fondo (un romanzo di formazione, un viaggio, una trasformazione) , ben diverso è il caso della Dreamworks, che invece crea prima personaggi che “funzionano”per poi costruire intorno a loro la storia.

Non è ben chiaro quale sia l’approccio da seguire: se l’appoggiarsi ad uno o più personaggi portanti potrebbe far pensare ad una maggiore introspezione, si deve constatare che nella maggior parte dei casi l’idea di personaggio si fonda soprattutto sul disegno grafico, lo schizzo, la “figura”, che riesce a prendere corpo letteralmente solo con l’approfondirsi della trama. D’altra parte, sebbene la penuria di storie e l’incapacità in costante aumento di raccontarle possano rifugiarsi apparentemente nel mondo Pixar, talvolta l’accuratezza nel costruire il plot della casa rivela alcuni schematismi di fondo. Se la Pixar ricerca l’universale la Dreamworks ricorre piuttosto ad una serie di particolari accumulati e accumulabili, tesi a soddisfare la sete di esperienza audiovisiva degli spettatori e a cementare il legame generazionale annullando le distanze.

Ogni fiaba può essere narrata ricorrendo  a diversi piani di lettura: storie stratificate, anche solo superficialmente o ad livello più profondo, in cui il sensazionale del disegno e del tormentone onomatopeico uniti alla semplicità del racconto convincono i piccoli, mentre il doppio fondo (o doppio senso) delle battute ammicca ai grandi. Pare essere, in tal caso, emblematico anche il ricorso a dirompenti elementi della realtà trasfigurata in un mondo a misura d’animale, di giocattolo o di creatura, in cui a contare sembra essere la perizia descrittiva dei caratteri e delle manie dei protagonisti, in fondo così “umani” (come accade ai piccolissimi e basici Minions e agli animali domestici di Pets).

La sfida poggia però anche sulla capacità di creare un immaginario sonoro, assunto di fondamentale importanza nelle produzioni rivolte al mondo dell’infanzia e oltre. Tralasciando la questione annosa del doppiaggio dei dialoghi – che da molti anni ormai insegue un filone dagli esiti discutibili, sebbene forse non troppo avvertiti dal pubblico, di cui si parlerà poi – la canzone accompagna da sempre il percorso dei personaggi animati. Se nell’universo “non Disney” a dominare sembra essere il riferimento a sonorità preesistenti in grado di creare affezione con il pubblico che guarda nei Disney – Pixar prevale la costruzione di un percorso musicale originale, con canzoni che dovranno imporsi alle orecchie del grande pubblico grazie all’interconnessione con le storie. È vero anche nel caso di Oceania, dove la musica è il mezzo per raccontare una vicenda ben definita e apparentemente senza origine letteraria (come accadeva in The Brave). Dunque il romanzo di formazione e le tematiche pre-adolescenziali si fondono allo scenario esotico dipinto minuziosamente e all’iconica espressività dei caratteri e delle movenze, ma ad aprire il vero varco attraverso le acque infuriate è l’orchestrazione del pezzo intimista affidato a Moana /Vaiana, l’espressione vocale in crescendo che ribadisce l’innata concordanza tra voce e grazia, tra suono e natura. Una grazia in fieri, ancora grezza, come testimoni anche la scelta di affidare il personaggio – cantante ad una voce adolescenziale nel film (Auli Cravalho) e la promozione del pezzo How far I’ll go alla vocalità acerba di Alessia Cara, lontanissima dall’impostazione di Idina Menzel in Frozen.

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Lontani dal territorio Pixar e dall’ingenuo sbocciare delle sue protagoniste – la cui forza sembra modellata sulla quasi dimenticata capostipite Mulan, la prima vera principessa ribelle classe 1998 – ci si avventura, come già detto, nel noto. La fiaba dalle tinte gotiche di Trolls (DreamWorks, regia di Mike Michtell e Walt Dohmriprende, nonostante la fascinosa ambientazione e il tratto retrò nella rappresentazione del mondo dei mostri – i tragicomici Bergen – in particolare, molti pezzi “classici” degli anni ’70 – ’80, epoca in cui imperversavano i pupazzi dalle chiome fluo creati da Thomas Dam. Il cantare, riconoscibile, ritmato ed empatico non è più il doveroso ed extradiegetico accompagnamento per i pensieri dei protagonisti. Le feste cantate ed il musical della vita stessa sono un’azione reiterata e conclamata per la protagonista Poppy (doppiata dall’attrice e cantante Anna Kendrick, nota per Pitch Black ovvero l’High School Musical universitario), che salvo sporadiche invenzioni degli autori della colonna sonora esplora successi transgenerazionali. Ecco allora che le parole di True Color e di The sound of silence assumono nuove sfumature per chi ascolta, quasi come se le scene del film fossero state plasmate su strofe e liriche di successi pop assemblati con estrema efficacia. Oltre all’abbondanza di titoli – riconoscibili dagli adulti più che dai bambini – non finiscono i legami con il mondo musicale. Il protagonista maschile è doppiato da Justin Timberlake, che presta la sua Can’t Stop the feeling (tr ai pezzi più recenti), mentre la coprotagonista è affidata nel canto e nei dialoghi all’eclettica Zoeey Deshanel (mentre si “sdoppia” nella versione italiana). Non appare quindi troppo insensata la scelta di far impersonare Poppy e Branch alla notissima Elisa e al semi esordiente Bernabei, reduce da talent.

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In Trolls la musica più o meno contemporanea incontra l’universo favolistico e stempera in un universo di colori “shocking” il vago sentore sinistro della trama  (la lotta per la sopravvivenza dei trolls e la paura onnipresente di essere divorati dai propri nemici).

(Continua)

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