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Red

La pubertà incontra la storia familiare attraverso rituali magici ed esplosive riflessioni

Titolo originaleTurning Red
Lingua originaleinglese
Paese di produzioneStati Uniti d’America
Anno2022
Durata99 min
Genereanimazionefantasticocommediaavventura
RegiaDomee Shi
SceneggiaturaDomee Shi, Julia Cho
ProduttoreLindsey Collins
Produttore esecutivoPete Docter
Casa di produzionePixar Animation StudiosWalt Disney Pictures
Distribuzione Disney+
MusicheSceneggiatura

In molti storcono il naso di fronte ai riadattamenti Pixar e Disney di questi ed altri decenni. La magia della fiaba trasfigurata, per necessità o per marketing, verrebbe spezzata dall’evidente linearità del protagonista e della sua mancata evoluzione rispetto ad un progetto di vita- Progetto che non mancava ad eroine ed eroi del passato millennio, pur nel tradimento adattativo. Chi era e chi sarà la Mulan, così diversa da quella della leggenda, o meglio: sarà chi è sempre stata o cambierà, come nei più classici coming of age. La Pixar, come spesso accade, non si affida alla fiaba né alla saudade per un tempo lontano mai realmente esistito ma dopo un rinnovato interesse nei confronti delle proprie produzioni si cala nella realtà del passato individuale di una dei suoi autori. Un passato non glorioso, affiancato ad una rievocazione storica recente da riscattare, ravvivandola però con l’ironia già radicata in molte pellicole. La regista sino canadese torna indietro di 20 anni, a quel 2002 in cui le preadolescenti grattavano goffamente la patina delle convenzioni, le abbracciavano e riemergevano dall’abisso con abiti sgargianti e improponibili. Si riappropria dell’estetica da polaroid e dell’ovattata era musicale  delle boyband, segnale di allarme nel passaggio all’adolescenza piena e feticcio da cui discostarsi gradualmente di fronte all’imminente ascesa del primo, vero e carnale interesse amoroso. La protagonista Mei Lin si presenta con una struttura disegnata con linee morbide, un abbigliamento volutamente antiquato rispetto a quello delle sue coetanee – persino rispetto a quello delle sue amiche, come lei “outsider” – e un’energia emotiva incontenibile che esplode al contatto con le rigide tradizioni di famiglia. Si muove al ritmo sincopato delle occidentalissime sonorità R’n’B di fine anni ‘90 – inizio 2000 ma allo stesso tempo risente di quelle trasformazioni psico-fisiche stilizzate care, forse, all’immaginario di anime e manga. Stelline negli occhi, flussi ed effetti fumosi che arricciano, allungano, cancellano il naso e allo stesso tempo scavano nei terreni più scivolosi dell’imbarazzo, nell’egoismo insito nella necessità di autoaffermazione e nelle piccole meschinità quotidiane.

Meilin con i capelli neri, prima della trasformazione in panda rosso

La storia di Meilin è soltanto sua, così personale e peculiare da tratteggiare con precisione un’età e la sua collocazione all’interno di un bizzarro e onirico rituale di famiglia. Il tenero ed enorme panda rosso in cui si trasforma rievoca, nel colore e nell’espressione, tuta una serie di rimandi scontati e più sottili, psicologici e storici. La rabbia e la seguente rassegnazione, non trovando pace, assumono le sembianze cartoonesche ed infiammate tanto vicine al piccolo personaggio di Inside Out, superandone la caratterizzazione. La deflagrazione e successiva riconciliazione passeranno allora per un’affastellamento peloso che comprime l’inquadratura, fattasi cupa. Il personaggio ha bisogno di crescere, ma non lo farà attraverso il tipico romanzo di formazione poiché cercherà di adattarsi al mondo ma, allo stesso tempo, di costruire per sé un angolo speciale e diverso da qualunque altro. La sottile carttiveria. I cedimenti e le altalene “ormonali” di una ragazza come le altre riescono allora a suggerire e a dipingere un essere umano del tutto originale, scontrandosi con il mondo alieno e allo stesso tempo conformista al suo interno rappresentato dalla madre.

Turning red racconta il cambiamento obbligato dell’adolescenza con toni apparentemente leggeri pur rivelando, a tratti, l’essenza turbolenta e fortemente drammatica dello stesso, suggerendo, senza alcun appesantimento didascalico, l’inusitata forza regressiva della repressione e la difficoltà della comunità di origine cinese nel difficile percorso ibrido tra “mantenimento” ed inclusione. Allo stesso tempo percorre una strada di disvelamento della psiche femminile in formazione, suggerendo con immagini giocose il flusso dei pensieri e l’affacciarsi simultaneo di sentimenti e descrivendo le contraddizioni dei primi veri legami tra ragazze. Con Red Domee-shi sembra sviluppare in forma narrativa e compiuta il piccolo e poetico corto “Bao”, in cui l’amore materno passava attraverso una bizzarra rivisitazione culinaria ed un inquietante istinto cannibalesco, simbolo della norma genitoriale che, incapace di autonormarsi, fagocita letteralmente i propri figli.

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Opopomoz

Manifesto italiano del film
<p class="has-drop-cap" value="<amp-fit-text layout="fixed-height" min-font-size="6" max-font-size="72" height="80">Nasce da una lezione di Lotte Reininger l'amore di Enzo D'alò per l'animazione, così come spiegato in questa lunga <a href="https://www.youtube.com/watch?v=SgVlzDrx88g&ab_channel=DarioMocciaChannel">intervista</a&gt;. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista napoletano trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo <em>La gabbianella e il gatto</em>. Non è così in <em>Opopomoz</em>, primo film animato diretto da D'Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul <a href="https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/film/opopomoz.htm&quot; data-type="URL" data-id="https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/film/opopomoz.htm">doppiaggio</a&gt;, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l'accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare "sfondo".Nasce da una lezione di Lotte Reininger l’amore di Enzo D’alò per l’animazione, così come spiegato in questa lunga intervista. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista napoletano trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo La gabbianella e il gatto. Non è così in Opopomoz, primo film animato diretto da D’Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul doppiaggio, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l’accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare “sfondo”.

Opopomoz” e una Napoli magica - Mar dei Sargassi
Un’immagine -bozza del film: la passeggiata delle due famiglie nella via dei presepi (S.Gregorio Armeno) a Napoli

Il piccolo Rocco, con l’aiuto di una dolce cuginetta, si inabissa nel luogo – non luogo per eccellenza per sfuggire alla percepita indifferenza dei suoi genitori, appena “investiti” dall’arrivo di un fratellino che sembra fagocitare le attenzioni di tutti, persino quelle dei lontani parenti. Il presepe, simbolo e fardello di una fede talvolta più mostrata che vissuta, ma anche oggetto d’arte minuziosa e ostinata come accade nelle vie centrali della vecchia Napoli, assume l’indicibile sembianza di mondo altro: è un nuovo luogo animato dalla magia, o forse persino dalla malìa blasfema di due diavoli cartooneschi e maligni che spingono il ragazzino ad invischiarsi in vicende più grandi di lui. Il presepe diventa, dunque, terreno di gioco in cui i personaggi, fino ad un momento prima ineluttabilmente immobili per volere dei grandi, prendono vita e raccontano le loro numerose ed interessanti storie. Il significato religioso, pur presente, appare dunque come un semplice spunto per narrare una vicenda umana ancora più vasta e insondabile come quella dell’amore-odio che lega bambini ad adulti, bambini a bambini. La mancata nascita di Gesù indica, forse troppo smaccatamente, la difettosa accettazione della nuova entrata in famiglia. L’arduo percorso di riconciliazione con i propri affetti e con parti nuove e più profonde di sé passa per incursioni metafisiche e simil-storiche attraverso varie tappe, scandite dal soul contaminato e sognante di Pino Daniele e dalle voci, non solo parlanti, di villain maestosi come Sua profondità /Peppe Barra.

Le pulsioni negative, ridicolizzate nella loro teatralità esplosiva e accostate al roboante mondo subterraneo, vengono così esorcizzate nel viaggio del giovane protagonista, sempre in ascolto del suo lato oscuro pur nell’andamento carezzevole del suo percorso.

Lingua originaleItaliano
Paese di produzioneItalia
Anno2003
Durata76 min
RegiaEnzo D’Alò
SoggettoEnzo D’Alò, Umberto Marino
SceneggiaturaEnzo D’Alò, Furio ScarpelliGiacomo Scarpelli
ProduttoreLuigi Musini e Roberto Cicutto
Casa di produzioneAlbachiara, Rai Cinema, DeAPlaneta
Distribuzione in italianoMikado Film
MontaggioSimona Paggi
MusichePino Daniele
ScenografiaMichel Fuzellier
Art directorAlessio Giurintano
Character designWalter Cavazzuti
AnimatoriStranemani
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Lo straordinario mondo di Gumball

Titolo originaleThe Amazing World of Gumball
Paese Regno Unito,  Stati Uniti
AutoreBen Bocquelet
ProduttoreJoanna Beresford
MusicheBen LocketNeil Myers
StudioCartoon Network Development Studio Europe
1ª TV3 maggio 2011 – 24 giugno 2019
Episodi240 (completa)
Durata episodi11 min
Editore it.Warner Home Video (DVD st.1), Koch Media (DVD st.6)
Rete italianaCartoon NetworkBoing (Netflix)
1ª TV it.1 ottobre 2011 – 13 settembre 2019
Episodi 240 (completa)
Durata episodi11 minuti
The Amazing World of Gumball the Storm: Amazon.it: Sjursen-Lien, Kiernan,  Atlansky, Lesley, Fiorentino, Mike, Amin, Shadia, Bocquelet, Ben: Libri in  altre lingue

(dai 9 anni)

Palla di gomma, letteralmente. Il protagonista, gatto, sovverte ogni legge della fisica paratelevisiva, giocando animatamente sui luoghi comuni delle serie a cartoni.

L’animazione lineare dei caratteri principali, legati in un bizzarro nucleo familiare, incontra l’impossibile prospettiva dei luoghi fotografati, così come personaggi minori o secondari si stagliano su quegli stessi sfondi avanzando minacciosamente, giustapposizioni di tecniche grafico-pittoriche differenti. Gumball potrebbe apparire ad occhi adulti, mediamente distratti, come un gran pastrocchio. L’estetica diretta e buffonesca dei protagonisti, con i loro cromatismi tipici e accesi, costituisce di certo un motivo di attrattiva per spettatori piccolissimi, ma ogni segmento di quest’inusuale prodotto d’animazione sembra inoltrarsi sempre di più in una sorta di diorama stratificato, percorribile a più livelli e in modo assai più sconnesso e assai meno “pedagogico” di quanto accadesse con Peppa Pig. L’ambientazione è squisitamente americana e il fine ultimo di Gumball appare chiaramente quello di persuadere, di intrattenere, a tratti persino di blandire, senza rinunciare però a delle incrinature che oltrepassano la zona comfort degli ammiccamenti cartooneschi già sperimentata anche nel passato recente.

Ancora una volta, e qui gli autori sembrano inevitabilmente degli epigoni di molti altri predecessori, la famiglia presenta la classica composizione “a la Simpson”, con un padre obeso e di scarso comprendonio, coniglio rosa, una madre gatta blu come il suoi primogenito, intelligente e tuttofare così come la sorella minore, una quattrenne dal linguaggio incredibilmente ricco, il protagonista e un fratello-amico che impersona letteralmente e forse simbolicamente il classico pesce fuor d’acqua. Speci (emblema di razze?) e abilità per lo più intellettive si incrociano nella definizione dei personaggi principali: il contraltare dell’umorale protagonista, a tratti bilanciato dal fratello adottivo, ma ancor più del padre iperferino, coniglio rosa incredibilmente goffo ed inerme, sono infatti una madre multitasking che, a differenza di molte madri da sit-com, lavora, e una sorella troppo giovane per essere ciò che è. Lo slittamento in uno scenario grottesco, in cui tutto è baldanzosamente “iper”, potrebbe allora configurarsi come una parodia di certa narrazione satirica, pur essendo questa visibile in prodotti ben più adulti ed adultizzati. Senza l’esplicito riferimento a politica e società statunitense Gumball diventa allora molto più fruibile degli show da cui trae ispirazione, e libera la propria creatività nell’assembramento di personaggi fantasiosi e a volte poco rassicuranti, come nel caso del ragazzo senza mento, caratterizzato da un’enorme bocca fotografica e orrorifica, o come nel caso della ragazza dinosauro priva di parola, spesso monodimensionali e dal carattere primitivo, in fondo bonario e contrastante con l’aspetto esteriore. Nuvolette variopinte e bucce di banana animate, studenti letteralmente edibili ma immortali: tutto il carnevale di Gumball si attiva per dar vita a semplici e colorate avventure, nelle quali sembra però strisciare costantemente un senso di disagio, percepibile forse più da spettatori abbastanza maturi, mentre i piccoli si perdono gioiosamente nel non sense. Gli scenari-sfondo immobili distorcono ancor di più la ricerca di un’impossibile profondità di campo, alludendo probabilmente alla presenza di un mega contenitore di cui si disseminano indizi con il proseguire della serie; a questo punto nella semplicità delle storie si inseriscono elementi perturbanti e originali e persino le personalità dei protagonisti sembrano evolvere, pur restando confinate nell’archetipo della non crescita e del non-tempo.

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Dililì a Parigi

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Regista: Michel Ocelot
Genere: AnimazioneFamily
Anno: 2018
Paese: Francia, Belgio
Durata: 95 min
Data di uscita: 24 aprile 2019
Distribuzione: Movies Inspired 

Michel Ocelot torna a incantare con i suoi disegni bidimensionali, vivacizzati da una sovrapposizione tecnica e tematica, in una storia che interseca realtà e voli fantastici.

Ocelot, classe 1943, condivide parte della biografia artistica e professionale con molti animatori della sua generazione: alcune serie televisive negli anni ‘80 e ‘70 e poi l’approdo al lungometraggio, assai più tardivo, dopo numerosi viaggi ed esplorazioni non solo letterarie e prima di inusuali collaborazioni (il videoclip per Bjork Earth intruders). Nato vicino Nizza e in costante contatto con il sud del mondo, espleta le sue suggestioni artistiche e pittoriche con il primo film animato Kirikù e la strega Karabà, il cui successo darà vita a due seguiti, ma è riconosciuto anche per Azur e Asmar, fiaba che tenta la fusione tra la tradizione narrativa occidentale e quella mediorientale.

Le figure di Michel Ocelot sono, anche in quest’ultima opera, vere e proprie figure, sagome non materiche che si stagliano su scenografie quasi completamente immobili, animate solo dal passaggio degli esseri umani e non. Una bidimensionalità ricercata, che trascende il semplice rifiuto della computer grafica (già attiva e in crescita ai tempi del primo Kirikù) ma che inscrive piuttosto nell’anelito narrativo: i personaggi sono come le essenze in movimento estratte dalle pagine di un libro, da un quadro, da una pittura rupestre, vivificati dal soffio della parola, dal suono e dalle storie che hanno urgenza di mostrarci.

Con un movimento di macchina all’indietro scopriamo presto che l’Eden splendente di verde e di natura in cui si aggira la piccola Dililì, kanaka alle prese con una vita primitiva insieme agli adulti del suo villaggio, altro non è che un quadro vivente delimitato da una recinzione, al di là della quale si accalcano gli occhi curiosi del pubblico parigino. La protagonista è dunque l’attrice di una sorta di presepe vivente o meglio di uno zoo umano, forse un’aberrazione per i moderni, ma una volta uscita dal suo quadro vive un’esistenza assai inconsueta: è assistita, curata ed educata da una nota personalità socialista dell’epoca, la signora Louise Michel(siamo tra il 1889 e gli inizi del ‘900), restituita ai nostri occhi con tratti realistici direttamente traslati dalle fotografie in bianco e nero.

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La ragazzina, vestita di bianco e d’oro e opportunamente leziosa, con il suo delicato inchino e la sua presentazione vagamente ironica, è quindi una piccola donna curiosa ed attiva, desiderosa di partecipare alla vita del suo tempo. Per farlo trova un amico insolito, il cui agire in una trama strettamente realistica ci apparirebbe come sospetto: è il fattorino tardo adolescente Orel, dagli occhi di ghiaccio, genuinamente interessato all’amicizia di Dililì ma totalmente scevro da sentimenti morbosi e inadeguati alla sua giovanissima età.

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Insieme si troveranno coinvolti nel vortice di un giallo, collaboratori in un’indagine sui casi di misteriose sparizioni di ragazze giovanissime e bambine nella città di Parigi. È un vortice che necessita, almeno in parte, di un distacco dal disegno simil geroglifico che ricordiamo anche in Azur e Asmar: i volti di Orel e della bambina, sospinta nel carretto a due ruote, si animano e si incupiscono con dovizia di particolari, in una caratterizzazione che va oltre l’essenzialità perseguita altrove, e lo fanno in una città intatta e meravigliosa, miracolo d’arte e di architetture sia nei vicoli delle scene diurne che nelle grandi piazze e nella resa dei monumenti in notturna. Appare evidente l’utilizzo di immagini fotografiche accanto ad accenni di computer grafica, in veri e propri tour virtuali in una Parigi dal vero per la quale si potrebbe utilizzare in senso pieno e positivo la vecchia espressione denigratoria di “città da cartolina”. Si tratta però di una vocazione turistica nobile, di un vagheggiamento nostalgico che non stride con le accurate pitture animate degli interni, delle periferie e delle campagne “maledette”.

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Sarah Bernhardt

Appare cruciale, allora, anche l’utilizzo delle comparse e l’interazione appassionata e originale che i due hanno con gli intellettuali parigini dell’epoca: un giovanissimo Picasso abilmente caricaturizzato, così come i colleghi fauvisti, la raggiante e languida Sarah Bernhardt, la cantante d’opera Emma Calvè, vera e propria coprotagonista, che stupisce Dililì con un primo vero abbraccio, effusione ignota alla piccola. È proprio nel palazzo della splendida e altera diva che la realtà così vicina si trasfigura, prima in un’immensa piscina al chiuso illuminata da luci azzurre e poi in un’esplorazione delle fogne cittadine.

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(Sopra: la celebre scienziata Marie Curie, a sinistra, in una gif tratta dal film insieme a sua figlia, a destra in una foto)

C’è una parte della città, o forse dell’umanità, che fa il tifo per Dililì e per le ragazze scomparse e si coalizza armoniosamente intorno a lei, a tratti divertendola ed estasiandola con ripetuti, sovrabbondanti omaggi all’arte, alla letteratura, alla politica e alla storia. Sono tantissimi i personaggi citati, fino al punto che è quasi impossibile ricordarli tutti. Quest’umanità dipinta da colori poco ombreggiati, a misura dei bambini che guardano, si contrappone allora nettamente agli antagonisti, la società dei Maschi Maestri. Di giorno questi esseri si confondono tra uomini distinti vestiti di nero, quel nero così bizzarro per l’osservatrice Dililì, ma dopo una prima iniziazione vengono promossi con un vistoso anello al naso e hanno volti grotteschi, ingialliti, adunchi. Non sopportano le donne e le bambine, e il loro piano e le relative motivazioni atterriscono nella loro stolta assolutezza, scoperchiata e sconfitta in modo eroico da un connubio di umanità e visioni avveniristiche, come il gigantesco dirigibile che si staglia nel cielo blu, in partenza dalla giovane Torre Eiffel. I Maschi Bianchi, terribili e ridicoli insieme, hanno però appoggi anche ai “piani alti”, ad esempio tra le alte cariche della Polizia.

Inquietante è il loto trattamento delle bambine (e delle donne, rapite in passato) prigioniere nel mondo sotterraneo, costrette a muoversi a quattro zampe, accecate da un sacco nero che le riduce ad esseri larvali, impotenti, assoggettate ad un potente indottrinamento.

Dililì affronta la sfida per riappropriarsi anche un po’ di sé, della sua crescita incerta, degli sguardi pungenti dei suoi connazionali che la giudicano “troppo bianca” e dei francesi che la vedono invece “troppo nera”, riportando allo stesso tempo al centro il discorso su un cammino inesorabile della storia che forze occulte (ma non troppo) vorrebbero riportare insieme, cammino fatto di emancipazione femminile e dell’infanzia. Gli accenni cupi e inquietanti ai possibili risvolti della storia si disperdono, cautamente e in modo fluido, rendendo il film meno stratificato ma maggiormente fruibile per un pubblico di giovanissimi, per i quali resteranno negli occhi la pedalata collettiva delle bambine in cielo, verso i propri cari, e le variopinte coreografie finali, oltre alla guida di un’eroina vispa e spontanea, mai realmente dimentica del suo essere bambina. Ocelot resta dunque nei meandri del film morale, infondendo un sentore di speranza ai giovani spettatori in modo diretto e comprensibile, senza impantanarsi nel mero didascalismo.

(recensione presente anche su filmtv.it )

Voto: 7,5

Età consigliata: dai 6 anni

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Shrek 2

SHREK 2

 

 

 

 

 

Il seguito del fortunato Cartoon Dreamworks, dai tratti rivoluzionari, non stupisce ma risponde alle aspettative

Quando ci si trova davanti ad un immenso calderone favolistico e digitalizzato come Shrek (2) si desiste facilmente da ogni torpore pseudo analitico, per lasciarsi travolgere dalle comiche incalzanti che abbandonano la derisione epica del primo film. Il gioco di rimandi e familiarità comincia con l’ammiccare divertito e sarcastico al Regno di Lontano Lontano, un boulevard simil-hollywoodiano dalla tipica spazialità fintamente avvolgente. Un luogo adatto alle costruzioni ironiche, all’ansia decostruttiva di quei miti cartacei qui ancora più evanescenti, perché pixelati.

Lo splendore novello di uno Shrek umano dal volto quadratamente noto, e il suo eterno combattimento contro quella leziosa bellezza e “umanità”, incarnata dall’odiosa Fata Madrina “canterina” come nella peggiore delle tradizioni disneyane, e dal vuotissimo figlio di lei, Azzurro (Charming nella versione originale). Quei tratti insidiosi, quell’invadenza da spot in cui non possiamo fare a meno di riconoscere i frammenti chiassosi del jet set da bolle di sapone contrastano ancora una volta con la festa di note rivisitate, con l’universo retrospettivo del fantasy e delle sue eterne dinamiche: la locanda tra il western e l’assurdo frequentata dai secolari personaggi di sempre, tra cui un Capitan Uncino pianista sperimentale pericolosamente somigliante a Frank Zappa, ma soprattutto quel coacervo di sinuosità e buffa tenerezza costituita da un ispanico ed inedito Gatto con gli Stivali, che usa il suo stesso aspetto accattivante come arma contro gli “stolti” e oscilla tra la fanfaronaggine e l’affermazione di un’animalità riscoperta, autentica, antropomorfa in modo primigenio.

Lo stesso finale, ricondotto all’abilità da mattatori del Gatto e del vulcanico Ciuchino, fa esplodere quella pungente polvere di stelle e libera dal fittizio la risoluta Fiona e suo padre, restituendo loro una forma “interiore” apparentemente grottesca ma gustosamente armonica e libera. (recensione già pubblicata su cinemovie.info )

Titolo: Shrek 2 2

PRODUZIONE: USA

ANNO: 2004  

GENERE: Animazione

REGIA: Andrew Adamson, Kelly Asbury, Conrad Vernon

CAST: Shrek (Mike Myers – Renato Cecchetto), Ciuchino (Eddie Murphy – Nanni Baldini), Principessa Fiona (Cameron Diaz – Selvaggia Quattrini)

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Piccolo uovo

La copertina del libro

Piccolo uovo. In CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa). Ediz. a colori - Francesca Pardi - copertina

Per parlare di Piccolo uovo non dobbiamo soltanto affidarci alla forza iconica delle immagini di Altan, le quali campeggiano sulla copertina del libro e introducono anche il breve cortometraggio tratto da esso. Ideato dalla casa editrice Lo stampatello, il breve libro di Francesca Pardi nasce da un progetto atto ad avvicinare l’infanzia a tematiche  sociali e culturali del nostro tempo, pur non appartenendo a presunti “piani di rieducazione” come paventato alcuni anni fa.  Nel 2015 infatti l’allora sindaco di Venezia stilò una lista libri gender,  da bandire nelle scuole e in altri luoghi (come ad esempio le biblioteche comunali) in quanto portatori di un’ideologia contraria alle credenze dei sostenitori dello stesso sindaco, spaventati dal presunto irrompere di un’idea educativa atta a smantellare l’ordine naturale delle cose, ad esempio annullando  le differenze psicologiche e biologiche tra maschile e femminile. In realtà l’episodio di Venezia si iscrive in una cerchia di movimenti reazionari e complottisti molto più ampio,  che trova le sue radici suprematismo religioso statunitense e che investe vari aspetti dell’opinione pubblica italiana ed europea. 

Tra i titoli elencati nella “lista di proscrizione” ricordiamo anche opere non proprio di ultima uscita come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni,  in cui l’abbraccio simbolico tra i due piccoli/ macchie di colore  è stato probabilmente interpretato come fusione innaturale  tra due corpi,  due sensibilità o  o forse due razze.  Alcune delle opere segnalate sono invece molto recenti e soffrono di un didascalismo diffuso e solo a tratti governabile,  come nel caso di   C’è qualcosa di più noioso che essere una principessa rosa?,  in cui l’interessante grafica dai tratti cupi e saturi accompagna una storia che non riesce spiccare per inventiva e che, forse arroccata sul tentativo di promuovere idee ampiamente condivisibili, non sostiene con incisività narrativa le tematiche di un testo dominato dalla curiosità e dall’impulso all’avventura della giovane protagonista.   

Francesca Pardi scrive invece per Lo stampatello un libro rivolto ad un pubblico giovanissimo,  preferibilmente in età prescolare,  supportata  dal disegno  deciso di Francesco Tullio Altan,  celebre illustratore e cartoonist conosciuto come l’ inventore della psichedelica Pimpa alla fine degli anni ’70.  Anche in questo caso il disegno, la parola e  le figure rappresentano animali antropomorfi,  in un mondo in cui anche gli oggetti  o  la vita ancora in potenza  possono parlare, pensare e interagire con altre creature.  L’oggetto, non ancora animale o animato, è in questo caso un uovo,  che poco prima di schiudersi decide di andare in avanscoperta per conoscere possibili tipi di famiglie,  tra le quali troverà forse anche quella che lo alleverà. 

Il cartone riproduce esattamente la storia illustrata del libro,  in cui l’uovo cammina incessantemente esplorando diversi luoghi e facendo la conoscenza di famiglie diversissime per  composizione,  specie,  colori, numerosità.   Oltre ai classici nuclei composti da madre padre e  figli, come  come nel caso della famiglia conigliesca,  il protagonista  interagisce   con ménage  atipici,  che in qualche occasione  fanno riferimento  a una  casistica  esistente in natura  e talvolta rielaborano spiritosamente stereotipi    radicati  nel immaginario.  Ecco che allora  le mamme  gatte, sornione,  circondano armoniosamente con le loro fusa e con i loro corpi i due piccoli mici,  mentre  i papà  appartengono  alla specie dei pinguini, specie  avicola nota più che per i casi di omosessualità  rilevati in natura proprio per la cura paterna figli.  Come  nella Pimpa e in altre opere di Altan  lo spazio tempo sì contrae,  permettendo al piccolo  essere di viaggiare   e mutare rapidamente scenario,   delineando ancora una volta  luoghi  di l’immaginazione e  non propriamente   geografici. 

Il tratto   ampolloso, gentile e insieme netto nel confinare le sue creature,    si perde a tratti  in una certa meccanicità dell’animazione,  che ricalca in parte le  serie  modernizzate della Pimpa di fine anni ’90,  lasciando i personaggi   staccati  dai loro sfondi e  idealmente  distanti   da chi li guarda,  pur essendo questi potenzialmente  vicini   e  empatici.   Altri temi come l’adozione,  famiglia monogenitoriale e  multiculturale  sono vagamente accennati  grazie  rispettivamente  a  canguri,  ippopotami e  cani,  seguendo  le linee una semplicità  emozionale   netta  ma efficace. Questa è naturalmente   rivolta a fruitori  abituati a  pensare secondo  schemi  prelogici  in cui si innesta la  narrazione del magico,  lontanissima  dalle  prevedibili  preoccupazioni  di spettatori  adulti riguardo alla mancata  spiegazione del dato biologico,  da non trascurare ma esplorabile  in altre sedi.  Piccolo uovo  non si propone   dunque come  cartoon  educativo  ma forse, rinunciando ad una prosaica esposizione tipica di altre opere “a tema”. riesce a sensibilizzare il pubblico sulle tematiche suggerite e ad essere allo stesso tempo qualcos’altro, un testo stampato e visivo basico e vivido sulla scoperta di sé e sulle proprie origini.

Libro:  Francesca Pardi,  Francesco Tullio Altan, Piccolo uovo, Lo Stampatello, 2011

Cartoon: Piccolo uovo, regia di Chiara Molinari, 2018, durata 5’58”

 

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Lost in Oz

ITOLO ORIGINALE: Lost in Oz
ANNO: 2017
STAGIONI: Stagioni 1-2 (26 episodi)
DATA USCITA: 01/10/2017
DURATA: 24‘

(Scheda tratta dal sito Movie for Kids)

 

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Lost in Oz esplora nuove frontiere dell’ animazione seriale: ancora una volta utilizza una protagonista femminile nei tratti spigolosi nella dedizione alla essenzializzazione grafica che punta a incidere lo schermo ma anche a far trapelare un non più inedito dinamismo visivo ed interiore. La nuova storia di Dorothy è un’avventura dalla discendenza matrilineare, elemento silente ma pervicace nella prima stagione, capace di ispirare la protagonista e la sua attitudine al viaggio. Ritornano i temi del libro originale (in realtà una serie di 14 libri scritti da Frank Baum a partire dal 1900) e dei numerosi adattamenti da esso tratti, in primis il celebre musical in technicolor di Victor Fleming del 1939. Non resta sullo sfondo  infatti la tensione alla scoperta di sé, tipica dell’adolescenza o della preadolescenza ma il mondo altro si trova ad affrontare e certamente meno semplice è meno netto. Dalla cupezza dissimulata e dalla simbolizzazione nota anche agli spettatori moderni,incarnata dai quattro personaggi chiave della ragazza, del leone, dell’uomo di latta e dello spaventapasseri ci si immerge in un universo ipercromatico, strabordante e confuso. Personaggi e abitazioni incorporano il fantasy post moderno, fatto di effetti metallizzati che  fanno rivivere una’inedita Città di Smeraldo attraversata futuristici  dallo sviluppo sempre più verticale che vede la germinazione caotica di ambienti e vissuti.

Anche nel mondo creato dai cartoonist statunitensi per Amazon Video si innesta la quest della protagonista, affiancata dal mite mastichino dall’enorme testa Ojo e dalla streghetta ribelle West, il cui look è una rilettura interessante degli stereotipi “riot” e la cui personalità estremizza le pulsioni della riflessiva Dorothy, costretta a destreggiarsi tra insicurezze e impulsività in una caratterizzazione che si sforza di abbandonare la bidimensionalità. Poco rassicuranti, ma ancora ben riconoscibili grazie alla loro fisicità imponente e aliena, sono i Nomes, accaniti antagonisti che minacciano la Città di Smeraldo e il conseguente ritorno di Dorothy a casa.

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Con l’arrivo della seconda stagione gli ideatori fuggono però da una facile ricongiunzione finale, creando i presupposti per una sorta di cliffhanger e per un’ideale continuità tra due o più stagioni (la terza è prevista per l’autunno 2019), pur rispettando le regole della serialità che impongono una rotazione di personaggi, ambienti e tematiche, non ultima la commistione tra mondo reale e mondo della magia: è la prima “crepa” nella scissione binaria della narrazione.

Età consigliata: dai 5 anni.

 

 

 

 

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Mary e il fiore della strega

Ipercromatica pellicola che si poggia sulle orme ben calcate dello Studio Ghibli e punto di partenza per nuove avventure

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A metà giugno nelle sale italiane esce come evento speciale Mary e il fior e della strega, iniziatore del neonato Studio Ponoc. Qualche giorno in più nei cinema rispetto a quelli riservati alle riedizioni di vecchi film Ghibli, ma un chiarissimo legame con il suo predecessore a partire dalla locandina, in cui una bambina dal volto paffuto e dall’espressione concentrata fissa lo spettatore a cavallo di una scopa.

La storia di Mary, ragazzina intorno ai dieci anni ospite in una sorta di pensione per le vacanze, segue l’andamento semplice di molti percorsi di scoperta e riscoperta di sé, con l’esplorazione di scenari e foreste magiche iniziata dalle curiose evoluzioni di un gatto. Mary scopre i “fiori blu” e lo strapparli provoca un momentaneo sconquasso nella natura e nella saldatura tra mondo reale e fantastico.

La bambina si trova costretta a divenire una strega, a crescere cioè in maniera inaspettata attraverso l’acquisizione di nuove sembianze, nuove strategie, una nuova identità. La bizzarria dei suoi insegnanti, così leziosi nel sottolinearle il suo essere un'”eletta”, sottende però malignità, esperimenti, desiderio di dominio che è tipico di un’età adulta virata al post-umano, o meglio al “disumano”. Con l’aiuto di un nuovo amico e dei legami con il passato, incisi in un vecchio libro, Mary riuscirà a sventare un piano malvagio e ad accettare che la “magia” della vita può assumere tratti più delicati, evanescenti, ma allo stesso tempo più sfumati e reali.

Volare ed essere i maghi più potenti del mondo, per poi tornare ad essere bambini che sognano e che accettano la natura irraggiungibile dei sogni stessi: è questo forse il nucleo tematico del film, che si svolge attorno all’incostante corpo dei desideri umani, mutevoli nel passaggio tra le stagioni della vita eppure solcati da una sorta di traccia netta, di linea infuocata ed invisibile.

L’infuocato colore dei capelli della protagonista, colore da strega (come sottolineato anche da altre fonti), l’incendio del flash back iniziale e i dettagli di paesaggi e figure si aprono alla vitalità cangiante del disegno, capace di far nascere dal nulla mostri fatti d’acqua, isole sospese in un cielo nuvoloso e irrorato dal tramonto, un’architettura futuristica e ariosa. Graficamente pieno, denso e straripante, Mary e ilfiore della strega incanta a tratti alternando il dinamismo delle battaglie, le lente metamorfosi (animali ed esseri umani sono vittime di esperimenti terribili ad opera della direttrice e del professore del collegio) e le scene in cui i sensi sembrano distendersi, sospesi nella promessa di mistero e sorpresa: il vento che accarezza la foresta, la sua foschia , il brillio vivo e placido dei fiori.

La visione appare però sovraccarica più che coinvolgente per l’eccesso di rimandi: il viso (specchio del carattere) volitivo di Mary, non ancora delicatamente adolescenziale come quello di Kiki (consegne a domicilio)in parte simile a quello di Mei, capricciosa eroina de Il mio vicino Totoro. l’iniziazione stregonesca avvenuta quasi per caso, il demiurgo felino(La ricompensa del gatto), lo smarrimento fisico ed emotivo ed il legame con un ragazzo, complesso e reciproco (La città incantata e Kiki, consegne a domicilio) e  l’ambientazione britannica e la narrazione tipicamente occidentale: Mary e il fiore della strega è ancora una volta ispirato ad un libro di una scrittrice inglese, La piccola scopa di Mary Stewart (1992). Ed il passaggio tra il pensionato noioso e retrò e la scuola di magia, con tanto di esercizi sulla metamorfosi, sembra alludere fin troppo chiaramente a J.K. Rowling e alla saga di Harry Potter, fonte d’ispirazione principale della letteratura per ragazzi a partire dagli anni ’90(il primo libro è stato però pubblicato successivamente a °La piccola scopa).

Infine, i presagi sinistri, resi visivamente con stile efficace ed estenuante: la guerra, lo spregio della natura e delle sue creature, l’apocalisse, il desiderio di dominio e la magia che da potenzialità affascinante si fa strumento incontrollato ed inquietante (Nausicaa della valle del vento, Laputa  ): un elenco interminabile di suggestioni, omaggi, sottotrame che appesantiscono l’opera e ne minano la grazia infantile e giocosa, pur presente, sfumandone l’immagine e l’anima  e rendendola innocua ed indecisa. Godibile nelle trame essenziali e ricco nei contenuti e nella resa visiva, il film soffre nel tentativo di reinventare un’idea originale pur non liberandosi dell’ispirazione,  e riapre il dibattito sulle possibili e più o meno legittime forme della mescolanza, delle citazioni del “già visto”, del pastiche di canoni che dovrebbero riprendere vita e plasmarsi in una nuova forma.

Dirige Yonebaiashi, già noto per film forse più virati all’introspezione e all’intimismo come Arrietty e Quando c’era Marnie, canto del cigno (definitivo?) dello Studio Ghibli nel 2014, incerto sui sentieri più grossolani dell’epica e dell’avventura ma forse proiettato verso il futuro di un nuovo Studio.

Titolo originale メアリと魔女の花
Mary to Majo no Hana
Lingua originale giapponese
Paese di produzione Giappone
Anno 2017
Durata 102 min
Genere animazione, fantastico, avventura
Regia Hiromasa Yonebayashi
Soggetto Mary Stewart
Sceneggiatura Riko Sakaguchi, Hiromasa Yonebayashi
Produttore Yoshiaki Nishimura
Casa di produzione Studio Ponoc
Musiche Takatsugu Muramatsu

(voto 6, 5)

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Ricordo di Isao Takahata (1935-2018)

Ricordo Isao Takahata (1935-2018)

La storia della principessa splendente
(Kaguya-hime no monogatari) 2013, Isao Takahata

Il tratto dell’ultima pellicola di Isao Takahata sembra seguire l’andamento incostante, abbozzato e lieve di una penna fantasma. Da una famosa leggenda popolare nipponica la storia di Kaguya segue la vita sulla terra di una “pollicina” orientale, discesa sul nostro pianeta dalla luna e rinata, in seguito, nell’incavo di un tronco di bambù. Allevata con amore da due anziani contadini, la bambina vive un’esistenza piena immersa nella quiete della natura per alcuni anni, fino a quando i genitori non si trasferiscono in città. Imprigionata in vesti sgargianti e contesa dalla brama di numerosi principi, “Gemma di Bambù” sperimenta il dolore della cattività imposta dalla vita sulla terra.

Nella scoperta naturalistica del paesaggio risuonano le canzoni tradizionali, generosamente elargite dalle voci nasali di giovani contadini e da quella dell’apparente trovatella, tagliente ed eterea, raccordo ultraterreno con una dimensione onirica che sarà a poco a poco svelata nella sua crudele e splendida essenza. Seppur con venature di indicibile malinconia, tutto sembra volto all’armonica esperienza del mondo e alla conoscenza dei suoi abitanti, animali o vegetali, in una marcia incalzante e gioiosa affiancata dai bambini del luogo e dalle premure di un senpai, ovvero di un “fratello maggiore”.

Gemma di Bambù (il soprannome che le viene dato dalla gente del villaggio) è una neonata dalle movenze incantevoli, la cui perfezione misteriosa sgorga dalla linfa polifunzionale della pianta di bambù, simbolo vitale delle foreste orientali. Da quel legno morbido e duttile viene letteralmente estratta la ragazza, innaturalmente piccola ma completa come un prodigio, come fosse intagliata artigianalmente dal desiderio dei genitori umani. Le linee accennate, aperte, riempite da una colorazione tenue, sembrano contenere appena l’esplosione di vita che accompagna la singolare nascita: un misto di evoluzioni magiche investono l’ambiente e gli occhi di chi  osserva la trasformazione della creatura da piccolissima donna a neonata. Dopo il ritrovamento, infatti, gli anziani genitori assistono alla sua crescita vorticosa ed inspiegabile e al suo farsi “terrena”, mentre il suo peso aumenta e trascina verso il basso la vecchia madre che è riuscita ad allattarla.  Pur così radicata nella natura, che la piccola sembra amare tanto, quella crescita è chiaramente il segnale sinistro di qualcosa di ultraterreno. Allo stesso tempo, è indice di un dolore compresso e inesorabile e della condanna delle donne, ancora una volta in questa storia impossibilitate dall’essere solo bambine.

L’”aliena” Kaguya entra a far parte del femminile, del cerchio di esseri imperfetti e inanimati nella percezione popolare, esseri simbolo di un’infanzia violata dal mondo adulto o semplicemente dalla malattia – dunque, dell’amata natura. Quella natura, così rivisitata, si configura allora come terra di nessuno popolata da creature angeliche, destinate ad allietare la vita dei propri cari per un tempo brevissimo. La principessa – investitura nominale data dalla prigione dorata degli appartamenti che il padre e la madre le hanno riservato – è infatti richiamata presto alla sua Luna da un corteo di divinità gentili ed inquietanti, e negli ultimi giorni è costretta a mostrarsi sazia dell’amore genitoriale, dolcemente ricambiato nonostante le frequenti incomprensioni. In quegli istanti è in realtà un essere sfaldato e partecipe di quella cesura lancinante, di quel distacco obbligato sul quale viene poggiata metaforicamente la veste dell’oblio. Dopo essere stata oggetto della brama di svariati pretendenti, portati alla rovina dalla sua bellezza e dalle egoiste ma inconsapevoli smanie di prestigio che i genitori tentano di soddisfare attraverso la sua persona, la principessa ricorda e rinverdisce il suo sogno d’amore con un giovane contadino, sogno sfinito nel vento e nell’immanenza della vita che attende quest’ultimo. Resta il dilemma sempiterno sul conflitto tra passione e dolore, realtà terrestre e dimensione eterea: la vita sulla terra della principessa è forse valevole di essere vissuta, ma lei è costretta ad abbandonarne anche il ricordo. È forse per questo che i disegni di Takahata non riempiono mai lo schermo, non lo saturano mai di colori ma si sfilacciano e si riannodano continuamente, rendendo impossibile la cattura dello sguardo, simili solo a quelli presentati nel precedente lavoro di Takahata I miei vicini yamada del 1999.

Il film del 2013 si afferma così come un’opera d’arte pittorica e una riflessione sul potere delle emozioni e della loro mancanza. (Recensione parzialmente pubblicata su “Piccola guida allo Studio Ghibli”, 2017)

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Mulan

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Lingua originale
inglese
Paese di produzione
Stati Uniti d’America
Anno
1998
Durata
88 min
Genere
animazioneavventuracommediadrammaticostoricomusicale
Regia
Tony BancroftBarry Cook
Soggetto
Robert D. San Souci
Sceneggiatura
Rita HsiaoChris SandersPhilip LazebnikRaymond SingerEugenia Bostwick-Singer
Produttore
Pam Coats
Casa di produzione
Walt Disney Feature AnimationWalt Disney Animation Studios
Montaggio
Michael Kelly
Musiche
Jerry GoldsmithMatthew Wilder
Scenografia
Hans Bacher

“Non ci sono più principesse Disney caucasiche dal 1991”, affermava il personaggio di una fiction ormai storica[i] prima che le “congelate” Anna ed elsa segnassero il ritorno del rinascimento disney trasposto all’epoca Pixar, ma a ben vedere prima anche delle meno fortunate Rapunzel e Merida di The Brave.

Belle di Beauty and the beast era stata infatti  l’ultima principessa bianca “acquisita” per nozze regali della tradizione Disney, strappata a forza dalla favola reazionaria – come tutte –  di Perrault e calata in un universo fiabesco in cui riscattare il vissuto delle innumerevoli fanciulle in pericolo. Sebbene prima di Belle numerose eroine Disney avessero già mostrato, pur nella ristrettezza delle aspirazioni, un inaspettato cipiglio è innegabile che il periodo del cosiddetto “Rinascimento Disney”abbia segnato il ricorso ad un approccio al lungometraggio-cartoon modernista, incline all’ ironia e al rimodellarsi dei cosiddetti “modelli femminili”. Aveva sognato meravigliose avventure innalzandosi sulle ali dell’immaginazione, pur restando in parte confinata nello stereotipo della lettrice inattiva e coronando la sua storia nel trionfo della generosità nei confronti del padre, prima, e dell’amato, poi. Prima, Ariel de La sirenetta aveva abbandonato la casa subacquea e le regole paterne per l’esotico regno “all’asciutto”, pur sempre spinta dall’amore per un uomo. Dopo la fine dell’epoca dei grandi successi la Disney arrancava e tentava nuove strade nell’esplorazione di diverse etnie e contesti socio culturali (Pocahontas, Esmeralda de Il gobbo di Notre Dame e la non-principessa Greca Megara in Hercules) fino alla fine del decennio: nel 1998 i registi Tony Bancroft e Barry Cook si spostano in Cina, e attingendo all’ iconografia esotica il disegno muta e si fa meno classicheggiante, più espressionista .

I corpi appaiono scattanti, meno flessuosi, quasi ad anticipare con forza il disegno della Pixar e le sue sproporzioni espressive e vitali. Grandi le teste e gli occhi, pur ingentiliti dal taglio a mandorla, giganteggianti pance e volti che sembrano stagliarsi su un palcoscenico di antiche commedie latine. Mulan è esplorato alla leggenda cinese dell’eroina Hua Mulan[ii], trascritto in un poema e in numerose trasposizioni cinematografiche ma reso celebre solo grazie alla sua versione animata e velocizzata.

Aggirando il falso storico con un’abile mescolanza di elementi pittorici e un cromatismo inusuale gli animatori ambientano la storia in una Cina alla fine della dinastia Sui (nel 600 circa), periodo di invasione da parte degli Unni, ma allo stesso tempo non rinunciano alle cornici spettacolari antropiche e alla la natura cangiante e pacifica di foreste di bambù, anche innevate: compare infatti la Grande Muraglia, costruita diverso tempo dopo, e persino fuochi d’artificio, di mille anni più giovani.

In questi ambienti rocciosi e incontaminati, segnati dal passaggio dell’uomo che ne magnifica la maestosità, si snoda un’altra storia di formazione. La giovane Mulan è una ragazza maldestra, poco aggraziata e soprattutto “troppo magra”, che fallisce il test ordito dalla famiglia e da una caricaturale mezzana per valutarne la capacità di essere una buona moglie, e in seguito anche una buona “fattrice”. Imbellettata in abiti da cerimonia e sbiancata innaturalmente da un trucco che ne nasconde le fattezze, Mulan è così protagonista della scena dell’”iniziazione delle fanciulle” , che mette alla berlina secoli di tradizioni radicate non solo nell’estremo oriente. Si tratta di una sequenza veicolata da un siparietto ridanciano e chiassoso, ma con una controparte tetra sempre in agguato. Nella canzone “Riflesso”, affidata nella versione filmica alla cantante filippina Lea Salong e in quella commerciale ad un’esordiente Christina Aguilera, esplode in una malinconica protesta la voce della protagonista, il cui volto grazioso e infantile si scinde in un’evocativa lavatura: da un lato la maschera imbiancata e appesantita della desiderabilità convenzionale, ovvia ma potente allusione a tutte le maschere imposte o autoimposte che bambine e bambini cominciano ad indossare sul crinale dell’adolescenza, dall’altra il viso nudo, vivace, risoluto emerso dal rituale di purificazione. Ad accumulare  ulteriormente le prospettive del “riflesso” interviene la spada, simbolo famigliare di oppressione che deforma le proprie origini facendosi artefice della nuova vestizione di Mulan, non più futura sposa ma combattente.

Come narra la leggenda a cui è ispirata, la storia vede infatti Mulan prendere il posto del proprio padre, ormai anziano, tra gli uomini chiamati alla battaglia per difendere la Cina dall’imminente invasione Unna, omettendo il particolare della leggenda secondo cui Mulan avrebbe preso il nome (Fa Ping) di un fratello minore.

Non può non intervenire l’elemento magico, ancora una volta ammantato di ridicolo sotto forma del drago Mushu, uno spirito guida ovviamente pasticcione e in disgrazia che farà da eco alla goffaggine   della stessa Mulan, il cui sgraziato atteggiamento “en travesti” presenta tutti gli stereotipi del caso: finta voce grossa, camminata innaturale, prevedibili pudori come nella scena del rischioso disvelamento durante il bagno al lago.

Se la battaglia sulla neve con il nemico finale, un capo degli Unni dall’aspetto eccessivo e stilizzato al punto da stemperare la sua carica demoniaca ed inquietante (il colorito mortuario, gli occhi infuocati) corrisponde ad uno snodo essenziale nella narrazione, l’anima del film sembra però risiedere nella guerra contro lo sradicamento delle gabbie imposte dal genere, altalenante e arricchita da momenti ilari e inattesi. Il mascolino Li Shang, cantore di uno dei brani più energetici del film, oltre a non riuscire a plasmare in pieno i buffi e inadeguati guerrieri del suo accampamento, si ritrova a gestire una malcelata e ambigua affinità nei confronti del suo soldato più debole, in scene in cui gli sguardi tradiscono una crescente ammirazione per Ping/Mulan mista ad attrazione omoerotica.

Sarà lo stesso comandante ad accettare con maggior ritardo la scoperta della vera identità della ragazza, e solo dopo la creazione di uno stratagemma bellico ulteriore: in un edificio che ricorda molto la scintillante Città Proibita della dinastia Ming (altro slittamento storico ben studiato dagli animatori) Mulan affronterà un redivivo Shan Yu con l’aiuto dei suoi compari Yao, Chien Po e Ling, che per l’occasione ribalteranno il teorema del machismo vincente di cui la stessa Mulan si è rivestita adoperando una strategia ingannevole e “femminea” (si ripropone il motivo del travestitismo, questa volta in chiave comica). Ritorna ancora una volta il tema dell’autoaffermazione,  nella sua declinazione universale ma anche inaspettatamente femminile, con l’ingegno individuale supportato da spirito di squadra e acrobazie coreografiche, che abbandona il realismo come nella tradizione dei film d’arti marziali e si impone sull’ottusa esaltazione della prestazione meramente fisica e virile.

[i] Si tratta di una frase del personaggio Jenna Maroney, attrice comica e primadonna capricciosa dello show meta televisivo ideato da Tina Fey 30 Rock, in onda sulla NBC dal 2006 al 2013.

[ii]  Il poema La ballata di Mulan, che descrive la vicenda, è attribuito al filosofo Liang Tao ed è stato scritto presumibilmente nel VI secolo d.C.