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Red

La pubertà incontra la storia familiare attraverso rituali magici ed esplosive riflessioni

Titolo originaleTurning Red
Lingua originaleinglese
Paese di produzioneStati Uniti d’America
Anno2022
Durata99 min
Genereanimazionefantasticocommediaavventura
RegiaDomee Shi
SceneggiaturaDomee Shi, Julia Cho
ProduttoreLindsey Collins
Produttore esecutivoPete Docter
Casa di produzionePixar Animation StudiosWalt Disney Pictures
Distribuzione Disney+
MusicheSceneggiatura

In molti storcono il naso di fronte ai riadattamenti Pixar e Disney di questi ed altri decenni. La magia della fiaba trasfigurata, per necessità o per marketing, verrebbe spezzata dall’evidente linearità del protagonista e della sua mancata evoluzione rispetto ad un progetto di vita- Progetto che non mancava ad eroine ed eroi del passato millennio, pur nel tradimento adattativo. Chi era e chi sarà la Mulan, così diversa da quella della leggenda, o meglio: sarà chi è sempre stata o cambierà, come nei più classici coming of age. La Pixar, come spesso accade, non si affida alla fiaba né alla saudade per un tempo lontano mai realmente esistito ma dopo un rinnovato interesse nei confronti delle proprie produzioni si cala nella realtà del passato individuale di una dei suoi autori. Un passato non glorioso, affiancato ad una rievocazione storica recente da riscattare, ravvivandola però con l’ironia già radicata in molte pellicole. La regista sino canadese torna indietro di 20 anni, a quel 2002 in cui le preadolescenti grattavano goffamente la patina delle convenzioni, le abbracciavano e riemergevano dall’abisso con abiti sgargianti e improponibili. Si riappropria dell’estetica da polaroid e dell’ovattata era musicale  delle boyband, segnale di allarme nel passaggio all’adolescenza piena e feticcio da cui discostarsi gradualmente di fronte all’imminente ascesa del primo, vero e carnale interesse amoroso. La protagonista Mei Lin si presenta con una struttura disegnata con linee morbide, un abbigliamento volutamente antiquato rispetto a quello delle sue coetanee – persino rispetto a quello delle sue amiche, come lei “outsider” – e un’energia emotiva incontenibile che esplode al contatto con le rigide tradizioni di famiglia. Si muove al ritmo sincopato delle occidentalissime sonorità R’n’B di fine anni ‘90 – inizio 2000 ma allo stesso tempo risente di quelle trasformazioni psico-fisiche stilizzate care, forse, all’immaginario di anime e manga. Stelline negli occhi, flussi ed effetti fumosi che arricciano, allungano, cancellano il naso e allo stesso tempo scavano nei terreni più scivolosi dell’imbarazzo, nell’egoismo insito nella necessità di autoaffermazione e nelle piccole meschinità quotidiane.

Meilin con i capelli neri, prima della trasformazione in panda rosso

La storia di Meilin è soltanto sua, così personale e peculiare da tratteggiare con precisione un’età e la sua collocazione all’interno di un bizzarro e onirico rituale di famiglia. Il tenero ed enorme panda rosso in cui si trasforma rievoca, nel colore e nell’espressione, tuta una serie di rimandi scontati e più sottili, psicologici e storici. La rabbia e la seguente rassegnazione, non trovando pace, assumono le sembianze cartoonesche ed infiammate tanto vicine al piccolo personaggio di Inside Out, superandone la caratterizzazione. La deflagrazione e successiva riconciliazione passeranno allora per un’affastellamento peloso che comprime l’inquadratura, fattasi cupa. Il personaggio ha bisogno di crescere, ma non lo farà attraverso il tipico romanzo di formazione poiché cercherà di adattarsi al mondo ma, allo stesso tempo, di costruire per sé un angolo speciale e diverso da qualunque altro. La sottile carttiveria. I cedimenti e le altalene “ormonali” di una ragazza come le altre riescono allora a suggerire e a dipingere un essere umano del tutto originale, scontrandosi con il mondo alieno e allo stesso tempo conformista al suo interno rappresentato dalla madre.

Turning red racconta il cambiamento obbligato dell’adolescenza con toni apparentemente leggeri pur rivelando, a tratti, l’essenza turbolenta e fortemente drammatica dello stesso, suggerendo, senza alcun appesantimento didascalico, l’inusitata forza regressiva della repressione e la difficoltà della comunità di origine cinese nel difficile percorso ibrido tra “mantenimento” ed inclusione. Allo stesso tempo percorre una strada di disvelamento della psiche femminile in formazione, suggerendo con immagini giocose il flusso dei pensieri e l’affacciarsi simultaneo di sentimenti e descrivendo le contraddizioni dei primi veri legami tra ragazze. Con Red Domee-shi sembra sviluppare in forma narrativa e compiuta il piccolo e poetico corto “Bao”, in cui l’amore materno passava attraverso una bizzarra rivisitazione culinaria ed un inquietante istinto cannibalesco, simbolo della norma genitoriale che, incapace di autonormarsi, fagocita letteralmente i propri figli.

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Mary e il fiore della strega

Ipercromatica pellicola che si poggia sulle orme ben calcate dello Studio Ghibli e punto di partenza per nuove avventure

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A metà giugno nelle sale italiane esce come evento speciale Mary e il fior e della strega, iniziatore del neonato Studio Ponoc. Qualche giorno in più nei cinema rispetto a quelli riservati alle riedizioni di vecchi film Ghibli, ma un chiarissimo legame con il suo predecessore a partire dalla locandina, in cui una bambina dal volto paffuto e dall’espressione concentrata fissa lo spettatore a cavallo di una scopa.

La storia di Mary, ragazzina intorno ai dieci anni ospite in una sorta di pensione per le vacanze, segue l’andamento semplice di molti percorsi di scoperta e riscoperta di sé, con l’esplorazione di scenari e foreste magiche iniziata dalle curiose evoluzioni di un gatto. Mary scopre i “fiori blu” e lo strapparli provoca un momentaneo sconquasso nella natura e nella saldatura tra mondo reale e fantastico.

La bambina si trova costretta a divenire una strega, a crescere cioè in maniera inaspettata attraverso l’acquisizione di nuove sembianze, nuove strategie, una nuova identità. La bizzarria dei suoi insegnanti, così leziosi nel sottolinearle il suo essere un'”eletta”, sottende però malignità, esperimenti, desiderio di dominio che è tipico di un’età adulta virata al post-umano, o meglio al “disumano”. Con l’aiuto di un nuovo amico e dei legami con il passato, incisi in un vecchio libro, Mary riuscirà a sventare un piano malvagio e ad accettare che la “magia” della vita può assumere tratti più delicati, evanescenti, ma allo stesso tempo più sfumati e reali.

Volare ed essere i maghi più potenti del mondo, per poi tornare ad essere bambini che sognano e che accettano la natura irraggiungibile dei sogni stessi: è questo forse il nucleo tematico del film, che si svolge attorno all’incostante corpo dei desideri umani, mutevoli nel passaggio tra le stagioni della vita eppure solcati da una sorta di traccia netta, di linea infuocata ed invisibile.

L’infuocato colore dei capelli della protagonista, colore da strega (come sottolineato anche da altre fonti), l’incendio del flash back iniziale e i dettagli di paesaggi e figure si aprono alla vitalità cangiante del disegno, capace di far nascere dal nulla mostri fatti d’acqua, isole sospese in un cielo nuvoloso e irrorato dal tramonto, un’architettura futuristica e ariosa. Graficamente pieno, denso e straripante, Mary e ilfiore della strega incanta a tratti alternando il dinamismo delle battaglie, le lente metamorfosi (animali ed esseri umani sono vittime di esperimenti terribili ad opera della direttrice e del professore del collegio) e le scene in cui i sensi sembrano distendersi, sospesi nella promessa di mistero e sorpresa: il vento che accarezza la foresta, la sua foschia , il brillio vivo e placido dei fiori.

La visione appare però sovraccarica più che coinvolgente per l’eccesso di rimandi: il viso (specchio del carattere) volitivo di Mary, non ancora delicatamente adolescenziale come quello di Kiki (consegne a domicilio)in parte simile a quello di Mei, capricciosa eroina de Il mio vicino Totoro. l’iniziazione stregonesca avvenuta quasi per caso, il demiurgo felino(La ricompensa del gatto), lo smarrimento fisico ed emotivo ed il legame con un ragazzo, complesso e reciproco (La città incantata e Kiki, consegne a domicilio) e  l’ambientazione britannica e la narrazione tipicamente occidentale: Mary e il fiore della strega è ancora una volta ispirato ad un libro di una scrittrice inglese, La piccola scopa di Mary Stewart (1992). Ed il passaggio tra il pensionato noioso e retrò e la scuola di magia, con tanto di esercizi sulla metamorfosi, sembra alludere fin troppo chiaramente a J.K. Rowling e alla saga di Harry Potter, fonte d’ispirazione principale della letteratura per ragazzi a partire dagli anni ’90(il primo libro è stato però pubblicato successivamente a °La piccola scopa).

Infine, i presagi sinistri, resi visivamente con stile efficace ed estenuante: la guerra, lo spregio della natura e delle sue creature, l’apocalisse, il desiderio di dominio e la magia che da potenzialità affascinante si fa strumento incontrollato ed inquietante (Nausicaa della valle del vento, Laputa  ): un elenco interminabile di suggestioni, omaggi, sottotrame che appesantiscono l’opera e ne minano la grazia infantile e giocosa, pur presente, sfumandone l’immagine e l’anima  e rendendola innocua ed indecisa. Godibile nelle trame essenziali e ricco nei contenuti e nella resa visiva, il film soffre nel tentativo di reinventare un’idea originale pur non liberandosi dell’ispirazione,  e riapre il dibattito sulle possibili e più o meno legittime forme della mescolanza, delle citazioni del “già visto”, del pastiche di canoni che dovrebbero riprendere vita e plasmarsi in una nuova forma.

Dirige Yonebaiashi, già noto per film forse più virati all’introspezione e all’intimismo come Arrietty e Quando c’era Marnie, canto del cigno (definitivo?) dello Studio Ghibli nel 2014, incerto sui sentieri più grossolani dell’epica e dell’avventura ma forse proiettato verso il futuro di un nuovo Studio.

Titolo originale メアリと魔女の花
Mary to Majo no Hana
Lingua originale giapponese
Paese di produzione Giappone
Anno 2017
Durata 102 min
Genere animazione, fantastico, avventura
Regia Hiromasa Yonebayashi
Soggetto Mary Stewart
Sceneggiatura Riko Sakaguchi, Hiromasa Yonebayashi
Produttore Yoshiaki Nishimura
Casa di produzione Studio Ponoc
Musiche Takatsugu Muramatsu

(voto 6, 5)

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Mulan

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Lingua originale
inglese
Paese di produzione
Stati Uniti d’America
Anno
1998
Durata
88 min
Genere
animazioneavventuracommediadrammaticostoricomusicale
Regia
Tony BancroftBarry Cook
Soggetto
Robert D. San Souci
Sceneggiatura
Rita HsiaoChris SandersPhilip LazebnikRaymond SingerEugenia Bostwick-Singer
Produttore
Pam Coats
Casa di produzione
Walt Disney Feature AnimationWalt Disney Animation Studios
Montaggio
Michael Kelly
Musiche
Jerry GoldsmithMatthew Wilder
Scenografia
Hans Bacher

“Non ci sono più principesse Disney caucasiche dal 1991”, affermava il personaggio di una fiction ormai storica[i] prima che le “congelate” Anna ed elsa segnassero il ritorno del rinascimento disney trasposto all’epoca Pixar, ma a ben vedere prima anche delle meno fortunate Rapunzel e Merida di The Brave.

Belle di Beauty and the beast era stata infatti  l’ultima principessa bianca “acquisita” per nozze regali della tradizione Disney, strappata a forza dalla favola reazionaria – come tutte –  di Perrault e calata in un universo fiabesco in cui riscattare il vissuto delle innumerevoli fanciulle in pericolo. Sebbene prima di Belle numerose eroine Disney avessero già mostrato, pur nella ristrettezza delle aspirazioni, un inaspettato cipiglio è innegabile che il periodo del cosiddetto “Rinascimento Disney”abbia segnato il ricorso ad un approccio al lungometraggio-cartoon modernista, incline all’ ironia e al rimodellarsi dei cosiddetti “modelli femminili”. Aveva sognato meravigliose avventure innalzandosi sulle ali dell’immaginazione, pur restando in parte confinata nello stereotipo della lettrice inattiva e coronando la sua storia nel trionfo della generosità nei confronti del padre, prima, e dell’amato, poi. Prima, Ariel de La sirenetta aveva abbandonato la casa subacquea e le regole paterne per l’esotico regno “all’asciutto”, pur sempre spinta dall’amore per un uomo. Dopo la fine dell’epoca dei grandi successi la Disney arrancava e tentava nuove strade nell’esplorazione di diverse etnie e contesti socio culturali (Pocahontas, Esmeralda de Il gobbo di Notre Dame e la non-principessa Greca Megara in Hercules) fino alla fine del decennio: nel 1998 i registi Tony Bancroft e Barry Cook si spostano in Cina, e attingendo all’ iconografia esotica il disegno muta e si fa meno classicheggiante, più espressionista .

I corpi appaiono scattanti, meno flessuosi, quasi ad anticipare con forza il disegno della Pixar e le sue sproporzioni espressive e vitali. Grandi le teste e gli occhi, pur ingentiliti dal taglio a mandorla, giganteggianti pance e volti che sembrano stagliarsi su un palcoscenico di antiche commedie latine. Mulan è esplorato alla leggenda cinese dell’eroina Hua Mulan[ii], trascritto in un poema e in numerose trasposizioni cinematografiche ma reso celebre solo grazie alla sua versione animata e velocizzata.

Aggirando il falso storico con un’abile mescolanza di elementi pittorici e un cromatismo inusuale gli animatori ambientano la storia in una Cina alla fine della dinastia Sui (nel 600 circa), periodo di invasione da parte degli Unni, ma allo stesso tempo non rinunciano alle cornici spettacolari antropiche e alla la natura cangiante e pacifica di foreste di bambù, anche innevate: compare infatti la Grande Muraglia, costruita diverso tempo dopo, e persino fuochi d’artificio, di mille anni più giovani.

In questi ambienti rocciosi e incontaminati, segnati dal passaggio dell’uomo che ne magnifica la maestosità, si snoda un’altra storia di formazione. La giovane Mulan è una ragazza maldestra, poco aggraziata e soprattutto “troppo magra”, che fallisce il test ordito dalla famiglia e da una caricaturale mezzana per valutarne la capacità di essere una buona moglie, e in seguito anche una buona “fattrice”. Imbellettata in abiti da cerimonia e sbiancata innaturalmente da un trucco che ne nasconde le fattezze, Mulan è così protagonista della scena dell’”iniziazione delle fanciulle” , che mette alla berlina secoli di tradizioni radicate non solo nell’estremo oriente. Si tratta di una sequenza veicolata da un siparietto ridanciano e chiassoso, ma con una controparte tetra sempre in agguato. Nella canzone “Riflesso”, affidata nella versione filmica alla cantante filippina Lea Salong e in quella commerciale ad un’esordiente Christina Aguilera, esplode in una malinconica protesta la voce della protagonista, il cui volto grazioso e infantile si scinde in un’evocativa lavatura: da un lato la maschera imbiancata e appesantita della desiderabilità convenzionale, ovvia ma potente allusione a tutte le maschere imposte o autoimposte che bambine e bambini cominciano ad indossare sul crinale dell’adolescenza, dall’altra il viso nudo, vivace, risoluto emerso dal rituale di purificazione. Ad accumulare  ulteriormente le prospettive del “riflesso” interviene la spada, simbolo famigliare di oppressione che deforma le proprie origini facendosi artefice della nuova vestizione di Mulan, non più futura sposa ma combattente.

Come narra la leggenda a cui è ispirata, la storia vede infatti Mulan prendere il posto del proprio padre, ormai anziano, tra gli uomini chiamati alla battaglia per difendere la Cina dall’imminente invasione Unna, omettendo il particolare della leggenda secondo cui Mulan avrebbe preso il nome (Fa Ping) di un fratello minore.

Non può non intervenire l’elemento magico, ancora una volta ammantato di ridicolo sotto forma del drago Mushu, uno spirito guida ovviamente pasticcione e in disgrazia che farà da eco alla goffaggine   della stessa Mulan, il cui sgraziato atteggiamento “en travesti” presenta tutti gli stereotipi del caso: finta voce grossa, camminata innaturale, prevedibili pudori come nella scena del rischioso disvelamento durante il bagno al lago.

Se la battaglia sulla neve con il nemico finale, un capo degli Unni dall’aspetto eccessivo e stilizzato al punto da stemperare la sua carica demoniaca ed inquietante (il colorito mortuario, gli occhi infuocati) corrisponde ad uno snodo essenziale nella narrazione, l’anima del film sembra però risiedere nella guerra contro lo sradicamento delle gabbie imposte dal genere, altalenante e arricchita da momenti ilari e inattesi. Il mascolino Li Shang, cantore di uno dei brani più energetici del film, oltre a non riuscire a plasmare in pieno i buffi e inadeguati guerrieri del suo accampamento, si ritrova a gestire una malcelata e ambigua affinità nei confronti del suo soldato più debole, in scene in cui gli sguardi tradiscono una crescente ammirazione per Ping/Mulan mista ad attrazione omoerotica.

Sarà lo stesso comandante ad accettare con maggior ritardo la scoperta della vera identità della ragazza, e solo dopo la creazione di uno stratagemma bellico ulteriore: in un edificio che ricorda molto la scintillante Città Proibita della dinastia Ming (altro slittamento storico ben studiato dagli animatori) Mulan affronterà un redivivo Shan Yu con l’aiuto dei suoi compari Yao, Chien Po e Ling, che per l’occasione ribalteranno il teorema del machismo vincente di cui la stessa Mulan si è rivestita adoperando una strategia ingannevole e “femminea” (si ripropone il motivo del travestitismo, questa volta in chiave comica). Ritorna ancora una volta il tema dell’autoaffermazione,  nella sua declinazione universale ma anche inaspettatamente femminile, con l’ingegno individuale supportato da spirito di squadra e acrobazie coreografiche, che abbandona il realismo come nella tradizione dei film d’arti marziali e si impone sull’ottusa esaltazione della prestazione meramente fisica e virile.

[i] Si tratta di una frase del personaggio Jenna Maroney, attrice comica e primadonna capricciosa dello show meta televisivo ideato da Tina Fey 30 Rock, in onda sulla NBC dal 2006 al 2013.

[ii]  Il poema La ballata di Mulan, che descrive la vicenda, è attribuito al filosofo Liang Tao ed è stato scritto presumibilmente nel VI secolo d.C.

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L’animazione che canta: Sing,Oceania, Trolls e Rock Dog a confronto

Nel primo Shrek (2001) la colonna sonora stessa nonché l’abbondare di momenti romanticamente “spezzati” irridevano la petulante – eppure altamente iconica – tradizione Disney di accompagnare ogni momento cruciale della narrazione con un commento musicale. Eppure il ricorso a temi aspiranti ad un posto nell’immaginario collettivo non sembra aver risparmiato nessuna delle grandi case di distribuzione di lungometraggi animati, pur con modalità differenti.

L’annata cinematografica 2016-17, non ancora conclusasi, ha visto alternarsi moltissimi titoli pronti a competere tra loro sul mercato dell’animazione. Come il già citato Shrek insegnava, la sfida maggiore non riguarda più il più o meno forzoso “trascinamento” di infanti nelle sale, quanto una tacita e rinnovata complicità degli adulti accompagnatori, immaginati non più come mere appendici robotizzate e riluttanti quanto come possibili interlocutori del discorso cinematografico. Genitori più attenti, o forse solo più preoccupati, da intrattenere con la promessa di un accennato rovello morale o più semplicemente con frammenti di uno spezzettato sogno proibito: il ritorno all’infanzia, mescolato con sprazzi di mode adolescenziali e “cheap thrills” musicali dal sapore vintage. Ed è forse proprio uno tra i titoli più recenti ad incarnare al meglio questo bizzarro connubio di generi ed aspettative: Sing di Garth Jennings prodotto dalla Illumination (costola della Universal che aprì i battenti nel 2010 con il celebre Cattivissimo me),  casa produttrice anche del recente Pets, colonizza occhi e orecchie per una manciata di secondi e sembra portare l’ibridazione tra fasce di riferimento oltre ogni aspettativa. Ma del film, per mere questioni cronologiche, parleremo più avanti.

Siamo oltre la perenne sfida distributiva tra i colossi Pixar e Dreamworks, dominanti per molti anni. A riguardo scrivono in molti: se la (Disney) Pixar costruisce il film partendo dalle trame e dall’idea di fondo (un romanzo di formazione, un viaggio, una trasformazione) , ben diverso è il caso della Dreamworks, che invece crea prima personaggi che “funzionano”per poi costruire intorno a loro la storia.

Non è ben chiaro quale sia l’approccio da seguire: se l’appoggiarsi ad uno o più personaggi portanti potrebbe far pensare ad una maggiore introspezione, si deve constatare che nella maggior parte dei casi l’idea di personaggio si fonda soprattutto sul disegno grafico, lo schizzo, la “figura”, che riesce a prendere corpo letteralmente solo con l’approfondirsi della trama. D’altra parte, sebbene la penuria di storie e l’incapacità in costante aumento di raccontarle possano rifugiarsi apparentemente nel mondo Pixar, talvolta l’accuratezza nel costruire il plot della casa rivela alcuni schematismi di fondo. Se la Pixar ricerca l’universale la Dreamworks ricorre piuttosto ad una serie di particolari accumulati e accumulabili, tesi a soddisfare la sete di esperienza audiovisiva degli spettatori e a cementare il legame generazionale annullando le distanze.

Ogni fiaba può essere narrata ricorrendo  a diversi piani di lettura: storie stratificate, anche solo superficialmente o ad livello più profondo, in cui il sensazionale del disegno e del tormentone onomatopeico uniti alla semplicità del racconto convincono i piccoli, mentre il doppio fondo (o doppio senso) delle battute ammicca ai grandi. Pare essere, in tal caso, emblematico anche il ricorso a dirompenti elementi della realtà trasfigurata in un mondo a misura d’animale, di giocattolo o di creatura, in cui a contare sembra essere la perizia descrittiva dei caratteri e delle manie dei protagonisti, in fondo così “umani” (come accade ai piccolissimi e basici Minions e agli animali domestici di Pets).

La sfida poggia però anche sulla capacità di creare un immaginario sonoro, assunto di fondamentale importanza nelle produzioni rivolte al mondo dell’infanzia e oltre. Tralasciando la questione annosa del doppiaggio dei dialoghi – che da molti anni ormai insegue un filone dagli esiti discutibili, sebbene forse non troppo avvertiti dal pubblico, di cui si parlerà poi – la canzone accompagna da sempre il percorso dei personaggi animati. Se nell’universo “non Disney” a dominare sembra essere il riferimento a sonorità preesistenti in grado di creare affezione con il pubblico che guarda nei Disney – Pixar prevale la costruzione di un percorso musicale originale, con canzoni che dovranno imporsi alle orecchie del grande pubblico grazie all’interconnessione con le storie. È vero anche nel caso di Oceania, dove la musica è il mezzo per raccontare una vicenda ben definita e apparentemente senza origine letteraria (come accadeva in The Brave). Dunque il romanzo di formazione e le tematiche pre-adolescenziali si fondono allo scenario esotico dipinto minuziosamente e all’iconica espressività dei caratteri e delle movenze, ma ad aprire il vero varco attraverso le acque infuriate è l’orchestrazione del pezzo intimista affidato a Moana /Vaiana, l’espressione vocale in crescendo che ribadisce l’innata concordanza tra voce e grazia, tra suono e natura. Una grazia in fieri, ancora grezza, come testimoni anche la scelta di affidare il personaggio – cantante ad una voce adolescenziale nel film (Auli Cravalho) e la promozione del pezzo How far I’ll go alla vocalità acerba di Alessia Cara, lontanissima dall’impostazione di Idina Menzel in Frozen.

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Lontani dal territorio Pixar e dall’ingenuo sbocciare delle sue protagoniste – la cui forza sembra modellata sulla quasi dimenticata capostipite Mulan, la prima vera principessa ribelle classe 1998 – ci si avventura, come già detto, nel noto. La fiaba dalle tinte gotiche di Trolls (DreamWorks, regia di Mike Michtell e Walt Dohmriprende, nonostante la fascinosa ambientazione e il tratto retrò nella rappresentazione del mondo dei mostri – i tragicomici Bergen – in particolare, molti pezzi “classici” degli anni ’70 – ’80, epoca in cui imperversavano i pupazzi dalle chiome fluo creati da Thomas Dam. Il cantare, riconoscibile, ritmato ed empatico non è più il doveroso ed extradiegetico accompagnamento per i pensieri dei protagonisti. Le feste cantate ed il musical della vita stessa sono un’azione reiterata e conclamata per la protagonista Poppy (doppiata dall’attrice e cantante Anna Kendrick, nota per Pitch Black ovvero l’High School Musical universitario), che salvo sporadiche invenzioni degli autori della colonna sonora esplora successi transgenerazionali. Ecco allora che le parole di True Color e di The sound of silence assumono nuove sfumature per chi ascolta, quasi come se le scene del film fossero state plasmate su strofe e liriche di successi pop assemblati con estrema efficacia. Oltre all’abbondanza di titoli – riconoscibili dagli adulti più che dai bambini – non finiscono i legami con il mondo musicale. Il protagonista maschile è doppiato da Justin Timberlake, che presta la sua Can’t Stop the feeling (tr ai pezzi più recenti), mentre la coprotagonista è affidata nel canto e nei dialoghi all’eclettica Zoeey Deshanel (mentre si “sdoppia” nella versione italiana). Non appare quindi troppo insensata la scelta di far impersonare Poppy e Branch alla notissima Elisa e al semi esordiente Bernabei, reduce da talent.

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In Trolls la musica più o meno contemporanea incontra l’universo favolistico e stempera in un universo di colori “shocking” il vago sentore sinistro della trama  (la lotta per la sopravvivenza dei trolls e la paura onnipresente di essere divorati dai propri nemici).

(Continua)

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Stelle sulla Terra

Il cinema a scuola, per la scuola o sulla scuola. Come potremo definire un film come Taare Zameen Par trascendendo il semplice valore cinematografico?  È certamente un possibile oggetto educativo, perché parla di scuola, di infanzia, di famiglie e soprattutto affronta un tema quasi sconosciuto alla cinematografia internazionale, quello della dislessia (Piccola parentesi: la legge sui disturbi specifici dell’apprendimento in Italia è arrivata tardi, solo nel 2010, gettando nel panico alcuni insegnanti e molti genitori, sostenitori del mantra “è solo una moda”). Il film indiano pone però gli adulti che guardano di fronte a più di un interrogativo: un film che espone in modo chiaro un problema e che propone una lettura “giusta” per esso, dovutamente emotiva, è necessariamente un film di qualità? E se non lo è del tutto fino a che punto possiamo abdicare alle nostre convinzioni e/o sensazioni estetiche e formali per proporlo come punto di partenza per una riflessione?

Stelle sulla terra nasce da un’industria, quella di Bollywood, che ancora oggi prospera e non troppo raramente si apre al giudizio del mondo. Se ne ravvisano, fin dalle prime scene, i dettami stilistici, pur calati in un ambiente modesto: una famiglia che potremmo definire “piccolo borghese”  – non si fa riferimento a caste o ad eventuali punizioni divine, probabilmente per assicurare al film anche un riscontro internazionale – vive nella più classica delle abitazioni, pur moderna, il più classico dei menage familiari. Il legame sentimentale tra i genitori emerge appena per lasciar spazio alle impressioni sul volto paterno, quelle di un “padre-padrone” che non accetta devianze o ostacoli. Abiti tradizionali, scuola privata, un pizzico di documentarismo che accompagna la prima parte del film e che si sfalda strada facendo. Nelle aule dove studia il piccolo Ishaan, di 8 anni, non c’è spazio per la creatività e l’iniziativa dei discenti, e i maestri assumono le sembianze di creature mitologiche che da noi sopravvivono a stento, magari in qualche liceo classico dalla “grande storia” o più probabilmente in qualche foto ingiallita degli anni ’50. Ishaan non riesce a leggere correttamente e a fare dei semplici calcoli e ciò è considerato dagli insegnanti molto preoccupante. In aggiunta, non gli vengono successi neppure negli ambiti in cui sembra eccellere, per esempio quando utilizza le proprie parole per fornire l’interpretazione di una poesia. Un giorno, al limite della frustrazione, scappa da scuola accompagnato da un commento musicale adeguato, sfiorando con gli occhi tutte le bellezze e le peculiarità della sua città, una città indiana. Quando però i genitori lo vengono a sapere e chiedono delucidazioni apprendono, con dolore, che il loro bambino ha delle difficoltà insormontabili, che lo costringeranno a studiare in un collegio. Al suo interno non troverà molte differenze con la vecchia scuola, fino a che un professore – mago – attore (la star Aamir Khan, qui mattatore efficace e regista) non arriverà con la sua dirompente carica di energia, mista ovviamente alla capacità di comprendere ogni rivolo della psiche infantile.

L’alienazione di Ishaan è resa, inizialmente, da soluzioni animate coloratissime, che lo portano a immaginare un mondo di astronavi e alieni con cui aggirare il giogo delle lettere e dei numeri. L’adulto positivo irrompe nell’immaginario di un gruppo classe annoiato ed emotivamente compresso (anche questo ben lontano da quanto si può osservare nelle nostre aule)presentandosi come deus ex machina, e fondendo l’istanza pedagogica di sottofondo al ben più preponderante stratagemma classico del cinema b-hollywoodiano. Si staglia sul resto dei personaggi come una sorta di supereroe, consolidando tra l’altro la discutibile e diffusa credenza delle potenzialità dell’uno contro tutti, del missionario che sbaraglia le barriere asfittiche di una società chiusa ermeticamente ai desideri dell’infanzia con la sola forza del cuore. I cenni alla metodologia utilizzata dal maestro per combattere gli ostacoli del bambino dislessico sono rari (si accenna al fatto che l’uomo sia a sua volta dislessico) per lo più confusi in un montaggio ben finalizzato che celebra una delle grandi protagoniste dell’opera bollywoodiana: la musica.

Onnipresente, di commento o a tratti semi-diegetica, la canzone indiana moderna sottolinea ogni snodo della storia con la consueta forza, lasciando solo in parte ai margini l’elemento coreografico e risultando il tratto più autentico e forse più riuscito della pellicola.

Al contrario del maestro Ram, gli alti adulti del film stazionano tra la macchietta e il tragico, resi anche pittoricamente dalle prime opere di Ishaan, che si scoprirà essere un talento dal ricco immaginario visivo. Stelle sulla terra si apre dunque, con la sua durata dilatatissima per i tempi occidentali, alla discussione e alla riflessione di  adulti e ragazzi, ma rimane il più delle volte invischiato negli stereotipi sulla società e sull’infanzia offerta dalla cinematografia globalizzata e commerciale, respingendo lo spettatore restio a confrontarsi con essa.

Titolo originale: Taare Zameen Par

Regia: Amir Kaan

Interpreti principali: Darsheel Rafaely, Amir Kaan

Paese di produzione: india

Durata: 165 minuti

Anno:2007

Musiche: Shankar Mahadevan

Rating: dai 6/7 anni 

(pubblicato su filmtv.it)

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Studio ghibli: Il castello errante di Howl

Inauguro questa sezione su Hayao Myazaki con un vecchio articolo pubblicato sul sito Centraldocinema. Il castello errante di Howl è stato il secondo film dell’autore nipponico da me visto dopo La città incantata (2001), Come altre pellicole strutturate secondo i dettami del genere “romanzo di formazione” ( dello studio Ghibli ricordiamo I sospiri del mio cuore oppure, dello stesso Miyazaki, Kiki: consegne a domicilio e molti altri), Il castello… è pensato per far appassionare un pubblico al confine tra infanzia e preadolescenza (dagli 8-9 anni in su), ma può essere ugualmente apprezzato da bambini più piccoli contenendo, come di consueto, svariati elementi magici ed immaginifici. Continua a leggere

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The Brave (parte 2)

La scarnificazione del corpo appare quasi come un mezzo necessario per gli autori a far emergere l’anima del personaggio, una forza che viaggia infrangendo ogni ostacolo. Pur legata ad una tradizione lontanissima di magia ancestrale l’iperattiva figura di Merida appare come una freccia scagliata contro il destino ed i destini tutti, un modo inconsueto di convivere con la natura – esaltata, e quasi fotografica, è quella del paesaggio scozzese, verde e mai accogliente, quanto piuttosto impervio. La ragazza è descritta come un’emanazione ella volontà e del libero arbitrio, che vince contro tutto in un’estremizzazione delle potenzialità personali forse necessaria nel rivolgersi alla fascia di pubblico infantile. Se la natura femminile e giovanile non è univoca e non è opposta al maschile, come traspare dalla forza fisica e dall’abilità di arciera e cavallerizza della protagonista, la trama provvede però ad arricchire questa storia personale di iniziazione attraverso l’incontro con altre nature, incalzanti  sotto forma di ostacoli.

Gli ostacoli sono rappresentati, in primo luogo, dalla madre, figura canonica nella quale dominano i movimenti ampollosi e tonalità brune. Lo scontro con la madre sembra aderire a vecchi tòpos letterari con una schematicità fin troppo evidente, ma la novità quasi spiazzante nel microcosmo Disney  – che attinge molto spesso da fiabe celebri e secolari, pur modificandole – risiede proprio nella presenza viva e tangibile di Elinor. Elinor non è morta in circostanze tragiche lasciando sua figlia ad un mondo di padri assenti e matrigne crudeli, né però è una placida e inverosimilmente amorevole figura sullo sfondo, pronta a dispensare carezze e timidi consigli. La sua trasformazione fisica la aiuterà a maturare, una maturazione che testimonia l’importanza di un costante apprendimento in età adulta.

L’orso, icona mitologica e ponte tra il mondo terreno e quello degli spiriti – lo spirito del male irrompe con la mostruosa figura di Mor’du, dalle sembianze di un orso – è l’animale attraverso cui la madre Elinor scoprirà le caratteristiche di un mondo esterno sconfinato e spaventoso, non sempre controllabile ma con il quale convivere e comunicare. Particolarmente efficace, pur nel suo momentaneo abbandono da codici rassicuranti altrove rispettati dal film, è la scena in cui l’orsa – regina viene sopraffatta dalla propria intima e (ri)trovata ferinità e quasi aggredisce sua figlia,in un picco di immaginata violenza dopo il quale gli equilibri e i legami si ristabiliranno gradualmente. Durante il viaggio di reciproca riscoperta resteranno un po’ sullo sfondo le molteplici figure maschili: Re Fergus, rozzo ed amabile ma poco più che monodimensionale, i tre gemelli “terribili” e le effimere comparse come i pretendenti di Merida e i loro padri. Permane la situazione di un dialogo mancato, quasi ascrivibile alle rigide strutture dei lungometraggi d’animazione e alla loro necessità di alleggerire trame e personaggi per una maggiore fruizione. Le scarse sfaccettature nella presenza sullo schermo dei personaggi costituiscono forse un difetto in una pellicola come questa, capace comunque di far emergere in modo vivido le protagoniste e le interazioni intergenerazionali.

Scheda:

Ribelle

Titolo originale: The Brave

  • MONTAGGIO: Nicholas C. Smith
  • MUSICHE: Patrick Doyle
  • PRODUZIONE: Pixar Animation Studios
  • DISTRIBUZIONE: Walt Disney Studios Motion Pictures Italia
  • PAESE: USA
  • DURATA: 100 Min
  • FORMATO: 3D
  • ETA’ CONSIGLIATA: 4-9 anni

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The Brave – 1a parte

Parola per parola. La traduzione italiana del titolo sembrerebbe originale, ma bastano pochi rudimenti per comprendere che non lo è. Cosa c’è allora dietro quel “Ribelle” attribuito a Merida, protagonista del recente film d’animazione Disney? Merida è una principessa disegnata secondo l’estetica semplificata ed iperdinamica della Pixar, con la sua testa grande ed il corpo esile, mobile, avviluppato in una massa indomabile di capelli rosso fuoco che mostrano ad ogni inquadratura la perizia tecnica adoperata per crearli. Una principessa scozzese la cui fisicità e storicità è fissa in un passato fiabesco e parzialmente idealizzato,vagamente medioevale. Eppure la sua nobile origine non basta, da sola, ad attribuirle un posto nel celebre brand “Disney Princesses”, ideato per raccogliere prodotti per l’infanzia (giocattoli, educativi, audiovisivi) rivolti ad un pubblico femminile. Le famose principesse, pur con alcune varianti, avevano un disegno morbido – forse, a tratti, anche più piacevole – legato ad un glorioso passato della casa d’animazione (accanto alle classicissime Cenerentola e Biancaneve le eroine modernizzate del “rinascimento disney”) ma anche un ruolo ben preciso nel ribadire l’appartenenza di genere. Eroine post-post moderne (o informatizzate, o 2.0, oppure ancora digitali, ecc…) come Merida e Rapunzel mostrano un abbandono definitivo delle morbidezze, dell’indeciso fascino del gesto umano e animale genuinamente Disney. Perdono, rinunciando “coraggiosamente” all’interesse di spettatori più adulti, carne. (continua)