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Opopomoz

Manifesto italiano del film
<p class="has-drop-cap" value="<amp-fit-text layout="fixed-height" min-font-size="6" max-font-size="72" height="80">Nasce da una lezione di Lotte Reininger l'amore di Enzo D'alò per l'animazione, così come spiegato in questa lunga <a href="https://www.youtube.com/watch?v=SgVlzDrx88g&ab_channel=DarioMocciaChannel">intervista</a&gt;. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista napoletano trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo <em>La gabbianella e il gatto</em>. Non è così in <em>Opopomoz</em>, primo film animato diretto da D'Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul <a href="https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/film/opopomoz.htm&quot; data-type="URL" data-id="https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/film/opopomoz.htm">doppiaggio</a&gt;, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l'accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare "sfondo".Nasce da una lezione di Lotte Reininger l’amore di Enzo D’alò per l’animazione, così come spiegato in questa lunga intervista. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista napoletano trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo La gabbianella e il gatto. Non è così in Opopomoz, primo film animato diretto da D’Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul doppiaggio, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l’accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare “sfondo”.

Opopomoz” e una Napoli magica - Mar dei Sargassi
Un’immagine -bozza del film: la passeggiata delle due famiglie nella via dei presepi (S.Gregorio Armeno) a Napoli

Il piccolo Rocco, con l’aiuto di una dolce cuginetta, si inabissa nel luogo – non luogo per eccellenza per sfuggire alla percepita indifferenza dei suoi genitori, appena “investiti” dall’arrivo di un fratellino che sembra fagocitare le attenzioni di tutti, persino quelle dei lontani parenti. Il presepe, simbolo e fardello di una fede talvolta più mostrata che vissuta, ma anche oggetto d’arte minuziosa e ostinata come accade nelle vie centrali della vecchia Napoli, assume l’indicibile sembianza di mondo altro: è un nuovo luogo animato dalla magia, o forse persino dalla malìa blasfema di due diavoli cartooneschi e maligni che spingono il ragazzino ad invischiarsi in vicende più grandi di lui. Il presepe diventa, dunque, terreno di gioco in cui i personaggi, fino ad un momento prima ineluttabilmente immobili per volere dei grandi, prendono vita e raccontano le loro numerose ed interessanti storie. Il significato religioso, pur presente, appare dunque come un semplice spunto per narrare una vicenda umana ancora più vasta e insondabile come quella dell’amore-odio che lega bambini ad adulti, bambini a bambini. La mancata nascita di Gesù indica, forse troppo smaccatamente, la difettosa accettazione della nuova entrata in famiglia. L’arduo percorso di riconciliazione con i propri affetti e con parti nuove e più profonde di sé passa per incursioni metafisiche e simil-storiche attraverso varie tappe, scandite dal soul contaminato e sognante di Pino Daniele e dalle voci, non solo parlanti, di villain maestosi come Sua profondità /Peppe Barra.

Le pulsioni negative, ridicolizzate nella loro teatralità esplosiva e accostate al roboante mondo subterraneo, vengono così esorcizzate nel viaggio del giovane protagonista, sempre in ascolto del suo lato oscuro pur nell’andamento carezzevole del suo percorso.

Lingua originaleItaliano
Paese di produzioneItalia
Anno2003
Durata76 min
RegiaEnzo D’Alò
SoggettoEnzo D’Alò, Umberto Marino
SceneggiaturaEnzo D’Alò, Furio ScarpelliGiacomo Scarpelli
ProduttoreLuigi Musini e Roberto Cicutto
Casa di produzioneAlbachiara, Rai Cinema, DeAPlaneta
Distribuzione in italianoMikado Film
MontaggioSimona Paggi
MusichePino Daniele
ScenografiaMichel Fuzellier
Art directorAlessio Giurintano
Character designWalter Cavazzuti
AnimatoriStranemani
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Me contro Te: La vendetta del Signor S

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Gli youtuber per l’infanzia più noti esplorano le frontiere del fan – service, risultando ancora una volta parte di un ingranaggio ben confezionato ma che nulla aggiunge all’ormai sterminata produzione audiovisiva per ragazzi, puntando su scenari già ampiamente collaudati dai vecchi media

Nel 2014 i fidanzatini siciliani Sofia Scalia e Luigi Calagna (17 anni lei, 21 lui) aprono il loro canale Youtube. Vlog, ovvero finestra esperienziale sulla propria cameretta (letteralmente) senza alcuna pretesa di qualità tecnico-visiva né tantomeno contenutistica. I toni estetici, o meglio acustici, ricalcano già le modalità espressive di youtuber attivi e seguiti all’epoca: si urla anziché parlare, incuranti del fatto che l’audio possa essere regolato tranquillamente tramite le proprie casse, si discorre a ruota libera davanti ad una telecamera più o meno fissa. I contenuti, però, sono diversi da quelli nettamente autoreferenziali dei post-adolescenti sul tubo, né si avvicinano a quelli di coloro che tentano un approccio semi-professionale e sviluppano argomenti in forma discorsiva, a volte basandosi su un canovaccio scritto (ad esempio come i tantissimi recensori cinematografici e televisivi, sui quali varrebbe la pena aprire un capitolo a parte, in altra sede). I due ragazzi non si vergognano delle proprie attitudini allo scherzo puerile e alla risata svampita, e a poco a poco ne ricavano un “tema” attorno a cui costruire il canale e riempirlo di pubblicazioni sempre più assidue.
Tralasciando la graduale e poi sempre più esplosiva crescita del successo e dei fattori che realmente vi hanno contribuito, arriviamo ad oggi.

Quasi 6 anni dopo i due ragazzi, sotto il marchio Me contro te e con i diminutivi Sofì e Luì hanno il canale più seguito di Youtube Italia (4 milioni di iscritti) e sono riconosciuti come una sorta di rimpiazzo della vecchia televisione per bambini, dispersa in una decina di canali in chiaro e svariati altri a pagamento, tralasciando le varie piattaforme fornitrici di contenuti (Netflix e Amazon su tutte) ma pressoché prive di  divulgatori come lo furono i presentatori di programmi come Bim Bum Bam, l’Albero Azzurro, la Melevisione ecc…
Rassicurano, sebbene solo in parte, eserciti di genitori preoccupati di fronte all’autonomia mostrata dai figli nel maneggiare tablet e cellulari e nel vagare su Youtube (recente è l’introduzione di un’ulteriore applicazione che permette di selezionare contenuti e tempi di fruizione tra gli innumerevoli filmati presenti sulla piattaforma) per la quasi assoluta vacuità del racconto, dell’espressione e della proposizione di giochi ed esperimenti. Vacuità che somiglia ad un’inconsapevole innocenza, ma non vi si identifica.

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La storia attorno alla quale ruota il lungo(?)metraggio Me contro Te: La vendetta del Signor S non è altro che una meta – storia in cui i due protagonisti non recitano personaggi altri ma mettono in scena se stessi, con quell’estremizzazione di gesti e di linguaggio già ravvisata nei loro video, alienando definitivamente l’illusione di una rappresentazione naturale di sé. Così accade anche per i comprimari, tra cui alcuni già noti al loro pubblico come la vicina di casa amorevole ed impicciona, che ancor più dei caratteri principali sono corpi marionettistici, presi in prestito non tanto dalla già citata tv dei ragazzi quanto dall’universo fiction di telefilm e cartoni animati, caratterizzati da un vestiario di colori netti e da cadenze ispirate al doppiaggio per l’animazione.

In crisi e in spasmodica attesa dell’invito ad una premiazione che sembra non voler mai arrivare, i due non riescono a produrre nuovi video, non trovando nuove challenge da lanciare né nuovi prodotti da provare, secondo uno dei format più collaudati dal duo che consiste in uno spottone più o meno velato di giochi e passatempi vendibili. Il sempiterno nemico Signor S, dalla voce opportunamente metallica e dalla postura prevedibilmente misteriosa, sfrutta a suo favore i litigi e le incomprensioni dei due per ordire un piano eccessivo e rocambolesco: la funzione ricreativa dei filmati, studiati nei cromatismi e nei ritmi consapevolmente ipnotici per il loro pubblico, diventa allora un’arma per distruggerli in un ribaltamento gustoso e assurdo di prospettiva. Infatti il malvagio ha intenzione di pubblicizzare, tramite due cloni -robot dei due ragazzi che compariranno nei nuovi video, barattoli di un misterioso slime drogante che spinge i piccoli di tutto il mondo a giocare per alcuni minuti in maniera inebetita fino ad intristirsi, poiché il signor S avrà succhiato attraverso questi tutta l’energia vitale degli infanti.

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Il tutto si svolge in ambienti chiusi, atti a contenere furbamente l’imput avventuroso della storia, accennato e compresso prima dalle mura gialle e sovraccariche di della casa – stanza condivisa, poi dall’onnipresente inquadratura -cornice dei video in essa girati e infine in un sotterraneo apparentemente cupo, illuminato da sprazzi fluorescenti e cartooneschi.

Qui vengono imprigionati i due fidanzati, prima che la cattivissima assistente Perfidia  non compia un errore dietro l’altro e il finto villain Dottor Cattivius non si ricreda su di loro. Permangono gli stereotipi caratteriali dei personaggi, con una lei apparentemente più seria e istericamente perfettina, che si impegna per proporre soluzioni quasi sempre fallimentari, ed un lui pasticcione, incapace di trovare strade razionali ma incredibilmente vincente grazie al puro caso, con movenze mutuate dal Pippo disneyano e da altre numerose figure e figurine d’imbranato. A estremizzare questa goffaggine trionfante il già citato Cattivius, grasso e imbambolato come da copione e la stessa Perfidia, una sorta di Miss Dronio in carne ed ossa.

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Nell’unica esterna del film, dopo prove frustranti e soluzioni improvvisate, i protagonisti riescono finalmente a salire sul palco ambito e a neutralizzare cloni e nemici, ritirando il terribile slime dalle mani dei piccoli fans e producendosi in un’esibizione finale: si dichiara a gran voce che l’unione fa la forza, nonostante le scene raccontino, piuttosto, la vittoria di una fortuna sciocchina e volubile. Amplificando la loro aura, diffusa in uno scenario mondiale immaginario e mostrato solo attraverso claustrofobiche finestre social, lo strano oggetto filmico della durata di un’ora disvela i suoi punti di forza e di debolezza: da un lato le canzoni cucite addosso ai personaggi dal compositore e cantante di sigle televisive Giorgio Vanni, arricchite dall’immancabile autotune, dall’altra le incongruenze pesanti anche per un prodotto del genere e per il pubblico, talvolta addirittura prescolare, a cui è rivolto. La messa in scena dell’amore litigarello e l’affezione del pubblico infantile precocemente orientato nel seguirlo appaiono ad occhi adulti come programmatici, così come l’alimentazione del desiderio di smascheramento dell’ossessivo cattivo, ancora una volta frustrata, che non vince né perde mai, preservando la sua identità. Almeno fino al prossimo film.

 

Titolo: Me contro Te: La vendetta del Signor S

Regia: Gianluca Leuzzi

Produzione: Italia

Anno: 2019

Interpreti: Sofia Scalia, Luigi Calagna, Antonella Carone, Michele Savoia

Genere: commedia, avventura

Durata: 64 minuti

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Piccolo uovo

La copertina del libro

Piccolo uovo. In CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa). Ediz. a colori - Francesca Pardi - copertina

Per parlare di Piccolo uovo non dobbiamo soltanto affidarci alla forza iconica delle immagini di Altan, le quali campeggiano sulla copertina del libro e introducono anche il breve cortometraggio tratto da esso. Ideato dalla casa editrice Lo stampatello, il breve libro di Francesca Pardi nasce da un progetto atto ad avvicinare l’infanzia a tematiche  sociali e culturali del nostro tempo, pur non appartenendo a presunti “piani di rieducazione” come paventato alcuni anni fa.  Nel 2015 infatti l’allora sindaco di Venezia stilò una lista libri gender,  da bandire nelle scuole e in altri luoghi (come ad esempio le biblioteche comunali) in quanto portatori di un’ideologia contraria alle credenze dei sostenitori dello stesso sindaco, spaventati dal presunto irrompere di un’idea educativa atta a smantellare l’ordine naturale delle cose, ad esempio annullando  le differenze psicologiche e biologiche tra maschile e femminile. In realtà l’episodio di Venezia si iscrive in una cerchia di movimenti reazionari e complottisti molto più ampio,  che trova le sue radici suprematismo religioso statunitense e che investe vari aspetti dell’opinione pubblica italiana ed europea. 

Tra i titoli elencati nella “lista di proscrizione” ricordiamo anche opere non proprio di ultima uscita come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni,  in cui l’abbraccio simbolico tra i due piccoli/ macchie di colore  è stato probabilmente interpretato come fusione innaturale  tra due corpi,  due sensibilità o  o forse due razze.  Alcune delle opere segnalate sono invece molto recenti e soffrono di un didascalismo diffuso e solo a tratti governabile,  come nel caso di   C’è qualcosa di più noioso che essere una principessa rosa?,  in cui l’interessante grafica dai tratti cupi e saturi accompagna una storia che non riesce spiccare per inventiva e che, forse arroccata sul tentativo di promuovere idee ampiamente condivisibili, non sostiene con incisività narrativa le tematiche di un testo dominato dalla curiosità e dall’impulso all’avventura della giovane protagonista.   

Francesca Pardi scrive invece per Lo stampatello un libro rivolto ad un pubblico giovanissimo,  preferibilmente in età prescolare,  supportata  dal disegno  deciso di Francesco Tullio Altan,  celebre illustratore e cartoonist conosciuto come l’ inventore della psichedelica Pimpa alla fine degli anni ’70.  Anche in questo caso il disegno, la parola e  le figure rappresentano animali antropomorfi,  in un mondo in cui anche gli oggetti  o  la vita ancora in potenza  possono parlare, pensare e interagire con altre creature.  L’oggetto, non ancora animale o animato, è in questo caso un uovo,  che poco prima di schiudersi decide di andare in avanscoperta per conoscere possibili tipi di famiglie,  tra le quali troverà forse anche quella che lo alleverà. 

Il cartone riproduce esattamente la storia illustrata del libro,  in cui l’uovo cammina incessantemente esplorando diversi luoghi e facendo la conoscenza di famiglie diversissime per  composizione,  specie,  colori, numerosità.   Oltre ai classici nuclei composti da madre padre e  figli, come  come nel caso della famiglia conigliesca,  il protagonista  interagisce   con ménage  atipici,  che in qualche occasione  fanno riferimento  a una  casistica  esistente in natura  e talvolta rielaborano spiritosamente stereotipi    radicati  nel immaginario.  Ecco che allora  le mamme  gatte, sornione,  circondano armoniosamente con le loro fusa e con i loro corpi i due piccoli mici,  mentre  i papà  appartengono  alla specie dei pinguini, specie  avicola nota più che per i casi di omosessualità  rilevati in natura proprio per la cura paterna figli.  Come  nella Pimpa e in altre opere di Altan  lo spazio tempo sì contrae,  permettendo al piccolo  essere di viaggiare   e mutare rapidamente scenario,   delineando ancora una volta  luoghi  di l’immaginazione e  non propriamente   geografici. 

Il tratto   ampolloso, gentile e insieme netto nel confinare le sue creature,    si perde a tratti  in una certa meccanicità dell’animazione,  che ricalca in parte le  serie  modernizzate della Pimpa di fine anni ’90,  lasciando i personaggi   staccati  dai loro sfondi e  idealmente  distanti   da chi li guarda,  pur essendo questi potenzialmente  vicini   e  empatici.   Altri temi come l’adozione,  famiglia monogenitoriale e  multiculturale  sono vagamente accennati  grazie  rispettivamente  a  canguri,  ippopotami e  cani,  seguendo  le linee una semplicità  emozionale   netta  ma efficace. Questa è naturalmente   rivolta a fruitori  abituati a  pensare secondo  schemi  prelogici  in cui si innesta la  narrazione del magico,  lontanissima  dalle  prevedibili  preoccupazioni  di spettatori  adulti riguardo alla mancata  spiegazione del dato biologico,  da non trascurare ma esplorabile  in altre sedi.  Piccolo uovo  non si propone   dunque come  cartoon  educativo  ma forse, rinunciando ad una prosaica esposizione tipica di altre opere “a tema”. riesce a sensibilizzare il pubblico sulle tematiche suggerite e ad essere allo stesso tempo qualcos’altro, un testo stampato e visivo basico e vivido sulla scoperta di sé e sulle proprie origini.

Libro:  Francesca Pardi,  Francesco Tullio Altan, Piccolo uovo, Lo Stampatello, 2011

Cartoon: Piccolo uovo, regia di Chiara Molinari, 2018, durata 5’58”

 

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Pinocchio

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Garrone restituisce una riproduzione fedele e insieme straniante delle pagine tardo-ottocentesche di Collodi, destando più di un dubbio sulla possibile etichetta di film per ragazzi

Dopo circa due anni di lavorazione e una ricerca accurata del protagonista bambino (Federico Ielapi, già visto in Quo Vado) Matteo Garrone dà vita al nuovo e atteso Pinocchio, la terza versione dopo l’acclamato sceneggiato anni ’70 a firma di Luigi Comencini e il poco ispirato tentativo di Roberto Benigni nel 2002.

Come per il precedente Il racconto dei racconti non basta il ricorso ad una fotografia livida, in lento ed inesorabile incupirsi, né il parlato cadenzato, altalenante e incerto a delineare i caratteri dei suoi protagonisti. L’incursione nell’universo favolistico e in un’irrealtà che non è solo deformazione psicologica ed estetica del reale si ispira abbastanza saldamente al testo originale, celeberrimo e forse per questo destinato a continue infedeltà adattive. Con perizia tecnica si tratteggia il volto e il corpo di un protagonista non del tutto umano, riuscendo a coglierne le espressioni legnose e insieme insperatamente vive, quasi sempre concentrate in una maschera di ostinazione e irrequietezza infantile.

A circondarlo, l’iperrealtà delle botteghe e delle strade rionali, la vivida senilità di volti e corpi, di casacche preziose e consunte in un’atmosfera che attraversa epoche e spazi con passo delicato e sognante: l’avventura si dipana in borghi con ben poche caratteristiche “moderne” ma inscritti più chiaramente in una sorta di post – medioevo fiabesco, inoltre il viaggio di formazione del protagonista si attarda in luoghi noti d’Italia anche geograficamente lontanissimi, alternando campi d’ulivi, prati immensi, città di sassi e un insieme variegato di cadenze regionali. Geppetto – Benigni compie abilmente la transizione da sguaiato burattino a tenero e fragile anziano, con accenti e movenze opportunamente sopra le righe e il richiamo tragicomico ad una decadenza fisica ed intellettiva che ben si amalgama allo stile registico. Resta quel retrogusto grottesco già esplorato altrove e declinato qui al tratteggio di paure e ossessioni infantili, soprattutto nelle ossa di legno scricchiolanti ad ogni inquadratura, nella scena del fuoco, che causa la mutilazione delle gambe di legno del protagonista o nei volti corrucciati, deformati e dipinti degli attori nani, chiamati ad impersonare i burattini di Mangiafuoco e il grillo parlante (il già attivo al cinema e in televisione Davide Marotta). Se nella direzione degli attori Garrone si allontana quasi sempre dall’uso di semplici “facce da strada”, prediligendo un cast di volti noti (Barbara Enrichi, in un cameo, e Ciro Petrone, il Pisellino di Gomorra) ed iper noti ( Benigni, Proietti, Ceccherini e Papaleo) sui quali si gioca almeno in parte un senso di riconoscibilità e di affezione, il racconto classico segue un’andatura solo apparentemente lineare.

 

Più volte è possibile notare elementi che rileggono pedissequamente il testo di Carlo Collodi, aiutati da una fotografia volutamente poco accesa: i capelli della fata Turchina e l’avvicendarsi delle età sulla sua figura, l’impiccagione di Pinocchio al Campo dei Miracoli, qui anticipata da una sequenza onirica dell’albero carico di monete dall’impattante potenza immaginifica, e soprattutto il ritorno del Pescecane. L’antro umido e cavernoso in cui Pinocchio finisce e dona un nuovo significato al suo agire sembra infatti il compendio all’esplorazione di un mondo cupo, tetro, in cui la speranza resta attaccata ad un filo sottilissimo e i denti dell’animale sono inquietanti ma stranamente arrotondate tagliole di passaggio. Non più l’enorme e quasi confortevole balena di disneyana memoria dunque, quanto un luogo semovente in cui si annidano tremori e angoscia, cenno ad una realtà esterna astringente. Il film aveva già disseminato di segnali sinistri le avventure del bambino di legno, offrendo un punto di vista obliquo rispetto al romanzo, mutuato forse dallo sguardo di spettatori contemporanei: in tal senso la violenza fisicamente ostentata del maestro non ha la valenza esortativa del libro ma resta fine a se stessa, segnale non isolato di un’età adulta sorda e non comunicante con l’infanzia e la prima adolescenza di cui Pinocchio si fa stereotipo. Adulti e ragazzi restano dunque distanti, se non con poche eccezioni rappresentate dall’iperumano puerile e insieme antico della fata, prima bambina e poi donna ma forse semplicemente “spirito” custode (Marine Vacht, da adulta), dal burbero ma umanissimo Mangiafuoco (Proietti) e, in modo non troppo consueto, da un Geppetto che dispensa amore e consigli con genuina ingenuità , finendo per sembrare l’accudito e non più l’accudente. Più di una volta l’uomo è infido, predatore, non tanto nella stolta figura del maestro quanto nell’iconico ghigno melenso dell’Omino di Burro (Nino Scardina) o nell’umanità – animalità derelitta del Gatto e della Volpe.

 

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Come accade per l’ipnotica lentezza del Pescecane, la cui dentatura lievemente smussata non riesce realmente ad atterrire chi guarda, le scelte stilistiche e la destinazione iniziale della storia lasciano traccia di un’opera accurata e godibile ma non troppo affilata nell’inoltrarsi tra le brutture del mondo trasfigurato dalla magia, pur nei lievi sommovimenti provocati da alcune scene in cui si insinuano interrogativi più che profonde e durature inquietudini. In tal senso, il film non sembra centrare un target preciso e a trasformarsi in un prodotto commerciale, rischiando di lasciare indifferenti giovani spettatori visivamente non troppo allenati (i cosiddetti “fanciulli”, i coetanei di Pinocchio o già di lì) o di costituire un sovraccarico emotivo e visivo per i piccolissimi. 

 

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Scheda

Titolo:  Pinocchio

Regia: Matteo Garrone

Lingua: Italiano, Inglese

Produzione; Italia, Francia, Gran Bretagna

Genere: fantastico, avventura

Anno: 2019

Durata: 125′

Soggetto: Carlo Collodi (tratto da Le avventure di un burattino, 1882)

Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Cecceherini

Scenografia: Dimitri Capuani

Fotografia: Nicolaj Bruel

Montaggio: Marco Spoletini

Musiche: Dario Marianelli

Costumi: Massimo Cantini Parrini

Trucco: Mark Coulier

Storyboard: Giuseppe Liotti

 

(Voto 7 +)