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80 Myiazaki – Never ending man – Hayao Miyazaki

Nel 2020 arriva sulla piattaforma italiana di streaming Primevideo il documentario Never Ending Man: Hayao Miyazaki. In occasione dell’80 ° compleanno del regista giapponese pubblico una recensione del film, certamente non rivolto ad un pubblico infantile ma interessante e godibile per spettatori curiosi sul “dietro le quinte” di numerose idee mostrate da Miyazaki sul grande schermo

Titolo originaleOwaranai hito: Miyazaki Hayao
終わらない人 宮崎駿
RegiaKaku Arakawa
PaeseGiappone
Durata70 minuti
GenereDocumentario
ColoreColore
Formato16:9
Etàper tutti, consigliato dai 10 anni

Siamo nel 2015. La pioggia scrosciante che fonde e annulla il verde, piante generose che riversano la loro essenza attraversando illusoriamente le finestre di una casa-studio. Non sono date indicazioni precise sul luogo, ma sembra di riconoscere la pacifica area suburbana (visitata da chi scrive proprio a inizio 2016, mentre le riprese del documentario stavano per terminare) dove sorge il Museo Ghibli, magico luogo in cui un enorme e immobile Totoro accoglie i visitatori, invitati ad abbeverarsi di quegli interni e di quelle suggestioni senza poterle immortalare a loro volta.

Hayao Miyazaki, quasi 75 anni, torna nel quartiere periferico di Tokyo dove sono nate le sue storie, e dove da un semplice luogo di lavoro si è fatta strada l’epica legata allo studio Ghibli, ai suoi personaggi ma anche al suo creatore-personaggio, con quel volto iconico e facilmente riducibile a simbolo, a idea.

Nell’iniziale, quasi spettrale silenzio l’artista si riappropria di quei gesti quotidiani che precedevano o accompagnavano il lavoro, come la preparazione di un pasto caldo e fumante, uno dei tanti pasti evocati e abbondantemente descritti nei particolari disegnati in tante sue pellicole. Non è un’idea, né un simbolo, l’uomo Miyazaki. É un ideatore, un disegnatore, ma anche una persona consapevole del suo corpo segnato e stanco, pur nella sorprendente leggerezza dei gesti che traspare dallo schermo del documentario che lo filma. Il regista si schernisce, come a ritrarsi, definendosi “un povero vecchio”. Tale consapevolezza si rifrange nel lento incedere delle stagioni che accompagneranno la sua nuova avventura, con il cielo e le piante a ricordarci in ogni istante la bellezza della natura, così elegantemente profusa nelle immagini create, e insieme la sua inesorabile e apparente ciclicità.

I tratti marcati di Hayao raccontano molto di lui, così come le sue frasi nette: dopo la realizzazione dell’ultimo lungometraggio nel 2013, il semi autobiografico Si alza il vento, l’autore ha sentito all’improvviso di non aver più molto da raccontare, o meglio di non avere la forza per farlo. Emergono, tra un sorriso sornione e una bonaria lamentela su di sé, gli spigoli così tipicamente nipponici di una personalità che nell’immaginario del suo vasto pubblico si era andata formando come completamente diversa, forse tutta sospesa e sognante come le meduse e i pesci fantastici di Ponyo sulla scogliera.

Myiazaki è molto esigente e ricorda come con calma rigidità l’atteggiamento inamovibile e perentorio con cui sollecitava i suoi collaboratori. Da un momento all’altro la frenesia dello studio, delle tante penne al lavoro su fogli giallastri, ha lasciato spazio agli ambienti vuoti dovuti all’impossibilità di poter “fare abbastanza”. O tutto o niente, in un’ottica in cui nulla è lasciato al caso. I collaboratori di un tempo non ci sono più, perché ogni tassello di un film è estremamente importante e il maestro non ha l’energia necessaria per guidare un nuovo progetto. Quando c’era Marnie, del quarantenne Honebayashi, è un nostalgico e struggente ultimo capitolo dello Studio Ghibli, che chiude i battenti nel 2014 (l’ epigono fonderà, di lì a poco, lo Studio Ponoc). Dolente e asciutto è il ricordo di una collega animatrice, la cui dipartita recentemente appresa è accolta dal regista con una dura rassegnazione, aspro e difficoltoso è l’affastellarsi di ricordi, in gran parte piacevoli ma incastonati in un passato che non potrà ripetersi. Anche l’animazione in fondo, pur non fotografando la vita mentre passa, è un’altra espressione di quella “morte in movimento” che è il cinema stesso.

Ma il regista, incompleto proprio perché vivo, accetta di incontrare un gruppo di giovani animatori per dar vita ad un cortometraggio con un bruco protagonista. Da questo canovaccio semplicissimo nascerà una cooperazione eterna, faticosissima, fatta di barlumi d’entusiasmo e ascolto reciproco così come di incomprensioni, di intoppi tecnici e umani dovuti al modo nettamente diverso di comunicare tra “il vecchio” e “i giovani”. Gli ambienti minimali dello studio si riempiono di nuova luce, nuovi sguardi ma anche di un accostarsi alla vita e al lavoro completamente alieno, tecnicizzato e veloce, paradossalmente rilassato perché può permettersi di non essere certosino, maniacale, grazie agli ausili costanti dei mezzi digitali.

Boro il Bruco, il nuovo corto di Miyazaki arriverà in estate
Bozzetto di Kemushi no Boro (毛虫のボロ, “Boro il bruco”) cortometraggio d’animazione del 2018, primo progetto di Hayao Miyazaki esclusivamente in computer grafica, proiettato giornalmente al Museo Ghibli di Mitaka (Tokyo) a partire dal 21 marzo 2018. Il corto, per la cui realizzazione Miyazaki si è avvalso della collaborazione di giovani animatori, fa oggi parte di una serie di mini-film ideati in esclusiva per i visitatori del museo.

Il “bruco” riuscirà a prendere vita, ma fino a che punto il progetto potrà dirsi realizzato? Le creaturine brulicanti attorno al protagonista saranno forse nuovi tarli nella mente del regista, ridestato dalla speranza di poter nuovamente creare qualcosa di grande, forse un film dell’imprevisto e dell’incontro.

(pubblicato anche su filmtv.it)

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Mary e il fiore della strega

Ipercromatica pellicola che si poggia sulle orme ben calcate dello Studio Ghibli e punto di partenza per nuove avventure

Risultati immagini per mary e il fiore della strega

A metà giugno nelle sale italiane esce come evento speciale Mary e il fior e della strega, iniziatore del neonato Studio Ponoc. Qualche giorno in più nei cinema rispetto a quelli riservati alle riedizioni di vecchi film Ghibli, ma un chiarissimo legame con il suo predecessore a partire dalla locandina, in cui una bambina dal volto paffuto e dall’espressione concentrata fissa lo spettatore a cavallo di una scopa.

La storia di Mary, ragazzina intorno ai dieci anni ospite in una sorta di pensione per le vacanze, segue l’andamento semplice di molti percorsi di scoperta e riscoperta di sé, con l’esplorazione di scenari e foreste magiche iniziata dalle curiose evoluzioni di un gatto. Mary scopre i “fiori blu” e lo strapparli provoca un momentaneo sconquasso nella natura e nella saldatura tra mondo reale e fantastico.

La bambina si trova costretta a divenire una strega, a crescere cioè in maniera inaspettata attraverso l’acquisizione di nuove sembianze, nuove strategie, una nuova identità. La bizzarria dei suoi insegnanti, così leziosi nel sottolinearle il suo essere un'”eletta”, sottende però malignità, esperimenti, desiderio di dominio che è tipico di un’età adulta virata al post-umano, o meglio al “disumano”. Con l’aiuto di un nuovo amico e dei legami con il passato, incisi in un vecchio libro, Mary riuscirà a sventare un piano malvagio e ad accettare che la “magia” della vita può assumere tratti più delicati, evanescenti, ma allo stesso tempo più sfumati e reali.

Volare ed essere i maghi più potenti del mondo, per poi tornare ad essere bambini che sognano e che accettano la natura irraggiungibile dei sogni stessi: è questo forse il nucleo tematico del film, che si svolge attorno all’incostante corpo dei desideri umani, mutevoli nel passaggio tra le stagioni della vita eppure solcati da una sorta di traccia netta, di linea infuocata ed invisibile.

L’infuocato colore dei capelli della protagonista, colore da strega (come sottolineato anche da altre fonti), l’incendio del flash back iniziale e i dettagli di paesaggi e figure si aprono alla vitalità cangiante del disegno, capace di far nascere dal nulla mostri fatti d’acqua, isole sospese in un cielo nuvoloso e irrorato dal tramonto, un’architettura futuristica e ariosa. Graficamente pieno, denso e straripante, Mary e ilfiore della strega incanta a tratti alternando il dinamismo delle battaglie, le lente metamorfosi (animali ed esseri umani sono vittime di esperimenti terribili ad opera della direttrice e del professore del collegio) e le scene in cui i sensi sembrano distendersi, sospesi nella promessa di mistero e sorpresa: il vento che accarezza la foresta, la sua foschia , il brillio vivo e placido dei fiori.

La visione appare però sovraccarica più che coinvolgente per l’eccesso di rimandi: il viso (specchio del carattere) volitivo di Mary, non ancora delicatamente adolescenziale come quello di Kiki (consegne a domicilio)in parte simile a quello di Mei, capricciosa eroina de Il mio vicino Totoro. l’iniziazione stregonesca avvenuta quasi per caso, il demiurgo felino(La ricompensa del gatto), lo smarrimento fisico ed emotivo ed il legame con un ragazzo, complesso e reciproco (La città incantata e Kiki, consegne a domicilio) e  l’ambientazione britannica e la narrazione tipicamente occidentale: Mary e il fiore della strega è ancora una volta ispirato ad un libro di una scrittrice inglese, La piccola scopa di Mary Stewart (1992). Ed il passaggio tra il pensionato noioso e retrò e la scuola di magia, con tanto di esercizi sulla metamorfosi, sembra alludere fin troppo chiaramente a J.K. Rowling e alla saga di Harry Potter, fonte d’ispirazione principale della letteratura per ragazzi a partire dagli anni ’90(il primo libro è stato però pubblicato successivamente a °La piccola scopa).

Infine, i presagi sinistri, resi visivamente con stile efficace ed estenuante: la guerra, lo spregio della natura e delle sue creature, l’apocalisse, il desiderio di dominio e la magia che da potenzialità affascinante si fa strumento incontrollato ed inquietante (Nausicaa della valle del vento, Laputa  ): un elenco interminabile di suggestioni, omaggi, sottotrame che appesantiscono l’opera e ne minano la grazia infantile e giocosa, pur presente, sfumandone l’immagine e l’anima  e rendendola innocua ed indecisa. Godibile nelle trame essenziali e ricco nei contenuti e nella resa visiva, il film soffre nel tentativo di reinventare un’idea originale pur non liberandosi dell’ispirazione,  e riapre il dibattito sulle possibili e più o meno legittime forme della mescolanza, delle citazioni del “già visto”, del pastiche di canoni che dovrebbero riprendere vita e plasmarsi in una nuova forma.

Dirige Yonebaiashi, già noto per film forse più virati all’introspezione e all’intimismo come Arrietty e Quando c’era Marnie, canto del cigno (definitivo?) dello Studio Ghibli nel 2014, incerto sui sentieri più grossolani dell’epica e dell’avventura ma forse proiettato verso il futuro di un nuovo Studio.

Titolo originale メアリと魔女の花
Mary to Majo no Hana
Lingua originale giapponese
Paese di produzione Giappone
Anno 2017
Durata 102 min
Genere animazione, fantastico, avventura
Regia Hiromasa Yonebayashi
Soggetto Mary Stewart
Sceneggiatura Riko Sakaguchi, Hiromasa Yonebayashi
Produttore Yoshiaki Nishimura
Casa di produzione Studio Ponoc
Musiche Takatsugu Muramatsu

(voto 6, 5)

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Ricordo di Isao Takahata (1935-2018)

Ricordo Isao Takahata (1935-2018)

La storia della principessa splendente
(Kaguya-hime no monogatari) 2013, Isao Takahata

Il tratto dell’ultima pellicola di Isao Takahata sembra seguire l’andamento incostante, abbozzato e lieve di una penna fantasma. Da una famosa leggenda popolare nipponica la storia di Kaguya segue la vita sulla terra di una “pollicina” orientale, discesa sul nostro pianeta dalla luna e rinata, in seguito, nell’incavo di un tronco di bambù. Allevata con amore da due anziani contadini, la bambina vive un’esistenza piena immersa nella quiete della natura per alcuni anni, fino a quando i genitori non si trasferiscono in città. Imprigionata in vesti sgargianti e contesa dalla brama di numerosi principi, “Gemma di Bambù” sperimenta il dolore della cattività imposta dalla vita sulla terra.

Nella scoperta naturalistica del paesaggio risuonano le canzoni tradizionali, generosamente elargite dalle voci nasali di giovani contadini e da quella dell’apparente trovatella, tagliente ed eterea, raccordo ultraterreno con una dimensione onirica che sarà a poco a poco svelata nella sua crudele e splendida essenza. Seppur con venature di indicibile malinconia, tutto sembra volto all’armonica esperienza del mondo e alla conoscenza dei suoi abitanti, animali o vegetali, in una marcia incalzante e gioiosa affiancata dai bambini del luogo e dalle premure di un senpai, ovvero di un “fratello maggiore”.

Gemma di Bambù (il soprannome che le viene dato dalla gente del villaggio) è una neonata dalle movenze incantevoli, la cui perfezione misteriosa sgorga dalla linfa polifunzionale della pianta di bambù, simbolo vitale delle foreste orientali. Da quel legno morbido e duttile viene letteralmente estratta la ragazza, innaturalmente piccola ma completa come un prodigio, come fosse intagliata artigianalmente dal desiderio dei genitori umani. Le linee accennate, aperte, riempite da una colorazione tenue, sembrano contenere appena l’esplosione di vita che accompagna la singolare nascita: un misto di evoluzioni magiche investono l’ambiente e gli occhi di chi  osserva la trasformazione della creatura da piccolissima donna a neonata. Dopo il ritrovamento, infatti, gli anziani genitori assistono alla sua crescita vorticosa ed inspiegabile e al suo farsi “terrena”, mentre il suo peso aumenta e trascina verso il basso la vecchia madre che è riuscita ad allattarla.  Pur così radicata nella natura, che la piccola sembra amare tanto, quella crescita è chiaramente il segnale sinistro di qualcosa di ultraterreno. Allo stesso tempo, è indice di un dolore compresso e inesorabile e della condanna delle donne, ancora una volta in questa storia impossibilitate dall’essere solo bambine.

L’”aliena” Kaguya entra a far parte del femminile, del cerchio di esseri imperfetti e inanimati nella percezione popolare, esseri simbolo di un’infanzia violata dal mondo adulto o semplicemente dalla malattia – dunque, dell’amata natura. Quella natura, così rivisitata, si configura allora come terra di nessuno popolata da creature angeliche, destinate ad allietare la vita dei propri cari per un tempo brevissimo. La principessa – investitura nominale data dalla prigione dorata degli appartamenti che il padre e la madre le hanno riservato – è infatti richiamata presto alla sua Luna da un corteo di divinità gentili ed inquietanti, e negli ultimi giorni è costretta a mostrarsi sazia dell’amore genitoriale, dolcemente ricambiato nonostante le frequenti incomprensioni. In quegli istanti è in realtà un essere sfaldato e partecipe di quella cesura lancinante, di quel distacco obbligato sul quale viene poggiata metaforicamente la veste dell’oblio. Dopo essere stata oggetto della brama di svariati pretendenti, portati alla rovina dalla sua bellezza e dalle egoiste ma inconsapevoli smanie di prestigio che i genitori tentano di soddisfare attraverso la sua persona, la principessa ricorda e rinverdisce il suo sogno d’amore con un giovane contadino, sogno sfinito nel vento e nell’immanenza della vita che attende quest’ultimo. Resta il dilemma sempiterno sul conflitto tra passione e dolore, realtà terrestre e dimensione eterea: la vita sulla terra della principessa è forse valevole di essere vissuta, ma lei è costretta ad abbandonarne anche il ricordo. È forse per questo che i disegni di Takahata non riempiono mai lo schermo, non lo saturano mai di colori ma si sfilacciano e si riannodano continuamente, rendendo impossibile la cattura dello sguardo, simili solo a quelli presentati nel precedente lavoro di Takahata I miei vicini yamada del 1999.

Il film del 2013 si afferma così come un’opera d’arte pittorica e una riflessione sul potere delle emozioni e della loro mancanza. (Recensione parzialmente pubblicata su “Piccola guida allo Studio Ghibli”, 2017)

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Il mio vicino Totoro (seconda parte)

La casa e il bosco de Il mio vicino Totoro rappresentano un residuo territoriale che abbraccia presente e passato,modernità scolastica e lavorativa e tradizione. Tra le ante scorrevoli, il legno e il vetro della casa giapponese, e sotto i futon distesi, la famigliola incompleta vive una vicinanza innocente e rinvigorente, atta a far dimenticare la lontananza che il lavoro impone al giovane padre e l’assenza della madre, relegata per gran parte del film nei discorsi e nei toni ansiosi delle bambine, sospesa in un limbo speranzoso ma venato di tragicità. La campagna e il biancore della casa aprono fasci di luce sull’esistenza delle ragazzine, che affrontano la novità spiacevole con il trasporto e la capacità di rigenerarsi. Eppure i “mangia fuliggine”, come divinità intoccabili e rese geometriche nel loro imperturbabile, spaventoso avanzare, si annidano nei pensieri della bambina più piccola spingendola a risolvere il mistero del bosco e della campagna. Le anziane del villaggio, tratteggiate con la consueta grazia rilassata ed espansa, forniscono una temporanea spiegazione alle paure di Mei: i “mostri”, visibili solo da occhi innocenti, spariranno o fuggiranno quando le bambine di città si approprieranno dei nuovi ambienti con fiducia.

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Oltre il verde, oltre le risaie, Mei inventa un mondo fantastico che potrebbe essere vero. Custode dei “mangia fuliggine” è una creatura gigantesca, morbida come un enorme cuscino e imponente come una montagna, rassicurante e fornito di tratti dolci e tipicamente kawai ma allo stesso tempo misterioso, inquietante nelle movenze e nella forza dimostrata. L’albero, raggiungibile attraverso il tunnel, è la sua casa e il suo tempio, e il soffio di vita del suo risveglio è come vento, capace di innalzare la bambina al di là delle proprie vette immaginative. Totoro e i suoi seguaci, che ne ricalcano le forme stilizzate, accompagnano Mei nel bosco ma le forniscono la chiave per tornare a casa, oltre a regalare a lei e  a sua sorella Satsuki l’illusione pittorica di un rigoglio di piante che prende forma di notte, per magia, e che al mattino appare fortemente ridimensionato ma più tangibile ed emozionante, spogliato dal sogno.

Quando Mei si perde nella sua seconda fuga i colori del tramonto si tingono di un inusuale lirismo drammatico, di una luce rossastra violenta che scuote le sembianze veriste del bosco, mentre affiorano elementi disturbanti (la scarpetta pescata dal fiume) a squarciare la serenità bucolica con un tratto vivido, esplorato altrove dai cineasti dello studio (Totoro è contemporaneo di Una tomba per le lucciole). Il ritrovamento, toccante, della bambina, è affidato ad un ulteriore elemento magico. Totoro chiama per Satsuki il Nekobus, enorme gatto autobus dalla luminosità abbagliante e dal sorriso ferino e capace di volare correndo con le sue sei zampe possenti. Traspare ancora una volta la necessità di perdersi e ritrovarsi in un mondo misterico, questa volta esplorato attraverso gli occhi vigili e curiosi di una preadolescente molto simile ad altre protagoniste Miyazakiane, ricorrendo a figure zoomorfe di origine spirituale reinterpretate dalla fantasia infantile e della prima fanciullezza; figure da osservare e da toccare con prudenza, per superarne l’impatto sferzante e spaventoso e ricominciare a vivere nella realtà. Le figure adulte, volenterose e amorevoli ma frettolose, distanti, sono solo in parte iniziate a questa seconda natura, che si apprestano a contemplare attraverso i racconti filiali senza invaderla. Accade al padre, energico e affettuoso, e alla madre, la cui malattia è un ulteriore oggetto di mistero e contemplazione per la natura attiva delle sue figlie.
Le immagini finali riprendono gli elementi stilistici della sigla, in cui il gusto ed il cantato occidentale si fondono ad elementi musicali orientali e le creature – totem racchiudono una ritrovata unità familiare, contraltare moderno e solo apaprentemente opposto al percorso disperato narrato in Una tomba per le lucciole.

P.S. In uno dei cortometraggi proiettati all’interno del Cinema Saturno, sala del Museo Ghibli a Mitaka (Tokyo), il mondo di Totoro viene rielaborato senza troppi guizzi d’immaginazione, ma in modo concentrato e piacevole: nella breve trama Mei fugge nuovamente verso il suo magico mondo con l’aiuto di un minuscolo Nekobus, trainato dal vento, fino ad arrivare, tremando ancora un po’ (la sorpresa resta anche di fronte a creature conosciute, se queste si dispongono in modo inusuale), in un mondo sovraffollato di Totori e Nekobus trasportati da una creatura dalle dimensioni terrificanti e dal respiro ancor più spaventoso e profondo: è un gatto-dirigibile, vecchissimo e apparentemente ripescato tra i flutti di un mondo primordiale, ma comunque capace di apprezzare gli zuccheri “terreni” di una caramella offerta dalla piccola Mei.

Scheda:

Titolo originale となりのトトロ
Tonari no Totoro
Lingua originale giapponese
Paese di produzione Giappone
Anno 1988
Durata 86 min
Colore colore
Audio sonoro
Rapporto 1.85:1
Genere animazione, fantastico
Regia Hayao Miyazaki
Soggetto Hayao Miyazaki, Kubo Tsugiko
Sceneggiatura Hayao Miyazaki
Casa di produzione Studio Ghibli
Distribuzione(Italia) Lucky Red
Character design Hayao Miyazaki
Animatori Yoshiharu Sato
Montaggio Takeshi Seyama
Effetti speciali Kaoru Tanifuji
Musiche Joe Hisaishi
Scenografia Kazuo Oga
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Il mio vicino Totoro

Il mio vicino Totoro

 

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Un profilo aggraziato, tondeggiante e allo stesso tempo enigmatico campeggia su uno sfondo blu intenso: lo strano animale è il simbolo dello Studio Ghibli e inaugura la sua produzione nel 1988. Solo a 21 anni dall’uscita giapponese il lungometraggio di Hayao Miyazaki Il mio vicino Totoro arriva nelle sale italiane in una versione restaurata e doppiata, quando, cioè, il successo dello Studio è già consolidato. Il lungometraggio, della durata di 86 minuti, rappresenta in apparenza la schiera più debole della produzione dell’autore e dello studio, e questo per via delle tematiche e dei richiami ad un pubblico prettamente infantile, dunque meno stratificato. Una sorta di parentesi lieve dopo la durezza espressiva e la la complessità visiva di Nausicaa della Valle del vento, proiettato decisamente oltre l’infanzia.

La storia ha per protagoniste due sorelle di circa 4 e 11 anni, e nei loro volti è già possibile rintracciare quei tratti archetipici fortemente caratterizzanti che ritroveremo anche in altre pellicole: un viso leggermente allungato e una figura svelta per la sorella maggiore, uno paffuto e dominato dalle sue espressioni  in continua evoluzione per la più piccola. Tipici sono anche i visi degli adulti, dai tratti maggiormente induriti ma riconoscibili, e degli anziani, con nasi importanti e occhi allungati in fattezze atteggiate a stupore e rassicurante dolcezza. Le due bambine si trasferiscono in una casa di campagna assieme al padre, e solo più avanti nel corso della pellicola verrà svelato il motivo dell’assenza della madre. Solo i loro occhi infantili, e in particolare quelli di Mei, riescono a notare delle presenza che sfuggono al padre e all’anziana vicina, che però è consapevole di ciò che accade. Esserini di pulviscolo nero si agitano incessantemente sbucando fuori dalle fessure e da ogni infisso, dominando gli occhi strabuzzati di un’inizialmente terrorizzata Mei, L’accettazione di quel movimento e di quel ronzio inquietanti è il primo passo per orientarsi in un ambiente nuovo, durante la prima tappa di un processo di crescita in cui la sorella più grande affianca la piccola.

(Fine prima parte)

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Studio ghibli: Il castello errante di Howl

Inauguro questa sezione su Hayao Myazaki con un vecchio articolo pubblicato sul sito Centraldocinema. Il castello errante di Howl è stato il secondo film dell’autore nipponico da me visto dopo La città incantata (2001), Come altre pellicole strutturate secondo i dettami del genere “romanzo di formazione” ( dello studio Ghibli ricordiamo I sospiri del mio cuore oppure, dello stesso Miyazaki, Kiki: consegne a domicilio e molti altri), Il castello… è pensato per far appassionare un pubblico al confine tra infanzia e preadolescenza (dagli 8-9 anni in su), ma può essere ugualmente apprezzato da bambini più piccoli contenendo, come di consueto, svariati elementi magici ed immaginifici. Continua a leggere

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Il Giappone di Hayao Myazaki – Studio Ghibli

In molti concordano nell’affermare che, in un discorso generale sul cinema d’animazione, le serie e le pellicole giapponesi meriterebbero una sezione a parte. Negli anni ’80 le prime reti private cominciarono ad importare serie a puntate provenienti dal paese del Sol Levante, e fu subito chiaro ad occhi non più infantili un clamoroso scarto tra ciò che il “prodotto” avrebbe dovuto rappresentare e ciò che realmente era. Già superata la prima infanzia, forse intorno ai 6 anni, mi capitava di avvertire un certo disagio di fronte a quella narrazione così insolita, stilizzata e violenta, destabilizzante e allusiva. Solo molti anni più tardi ho scoperto da appassionati di manga ed anime la vera natura dei cartoni animati giapponesi e il loro ruolo all’interno della cultura di massa: destinati ad un  pubblico in prevalenza formato da adolescenti oppure adulti (sebbene le storie con protagonisti adulti fossero meno frequenti: si ricorda, in particolare, Maison Ikkoku di Rumiko Takahashi).

Hayao Miyazaki (Tokio, 1941) è forse il cineasta d’animazione giapponese più celebre in Europa e nel mondo; dopo aver lavorato a numerose serie animate ed ultimato lavori su commissione di carattere commerciale, nei primi anni ’80 riunisce attorno a sé una schiera limitata di autori e animatori per dar vita al suo progetto, ovvero la nascita di una casa di produzione indipendente, volta alla realizzazione di pellicole nelle quali è possibile rintracciare una linea d’azione e di ispirazione poetica comune. Lo Studio Ghibli (da Ghibli vento caldo o scirocco, oppure riferimento all’aereo italiano della Regia Aeronautica utilizzato per entrare in nord Africa) apre i battenti nel 1985 ma è già del 1984 la realizzazione del primo lungometraggio Nausica nella Valle del vento, storia post apocalittica dal chiaro orientamento ambientalista e pacifista. Il film è cupo, ricco di immagini suggestive, scontri e creature mostruose (gli insetti giganti che dominano la terra, estendendo ogni giorno di più la giungla tossica, ambiente in cui gli esseri umani non possono sopravvivere), dalla durata inconsueta di 2 ore. Il finale regala però apertura e speranza, coronando le gesta di una coraggiosa principessa che lotta contro le aberrazioni di quegli uomini che tentano, senza successo, di distruggere la giungla tossica in modi plateali e violenti.

Nonostante la quasi totale assenza di donne tra i registi di punta nello studio quasi tutti i film usciti successivamente mostrano personaggi femminili interessanti e sfaccettati, spesso forti e risoluti o comunque in procinto di scoprire il mondo ed esprimersi. Sono le bambine e le donne a venire a patti con un mondo simbolico inferocito nel loro coming of age, come accade alla protagonista de La città incantata, il film che nel 2001 ha resto estremamente popolare il Miyazaki regista e produttore in Italia e in Europa. Sono bambine, anche in età tenerissima, a comunicare con gli spiriti della natura superando la diffidenza e la paura, come accade ne Il mio vicino Totoro, nel 1988, distribuito nelle nostre sale con 20 anni di ritardo.

Nel mondo occidentale la distribuzione dei film dello studio è affidata alla Disney, ma la politica sui tagli si afferma immediatamente come molto rigida: dopo un insoddisfacente adattamento di Nausicaa da parte degli statunitensi Miyazaki vieta qualsiasi taglio o snaturamento dei film. Tali “migliorie”, del resto, erano volte unicamente a conferire un appeal commerciale e ad assicurare la vendibilità dei lungometraggi animati, non tanto a riparare i giovani spettatori da  eventuali contenuti conturbanti. Pur illustrando temi importanti come la crescita, la vecchiaia, la morte, l’interazione tra generazioni, avvalendosi di una grafica non sempre rassicurante (uno dei punti chiave della riconoscibilità degli autori Ghibli è la pressoché totale rinuncia al digitale) le opere Ghibli sembrano essere ugualmente contrassegnate  da un’estrema delicatezza nel trattare i temi affrontati, limitando o azzerando le immagini insinuanti e le allusioni di tipo sessuale che potrebbero essere non pienamente colte o analizzate dal pubblico infantile, garantendo una generale fruibilità estendibile anche alla prima infanzia. L’ostacolo vero, per i piccolissimi e anche per molti bambini in età scolare abituati ad un certo tipo di animazione (le serie ad episodi brevissimi, il ricorso continuo a scene d’azione e ad effetti sonori e visivi per destare l’attenzione), potrebbe risiedere piuttosto nella complessità della trama e delle caratterizzazioni, supportata da disegni stratificati ed evocativi in cui è possibile cogliere molti dettagli.

Molti dei film prodotti dallo studio giapponese, dunque, possono essere apprezzati da fasce d’età diverse, ma non in modo uniforme. In storie di formazione e di adolescenza come Kiki: consegne a domicilio, per esempio, un pubblico di pochi anni più giovane della protagonista potrà identificarsi nelle sue peripezie, pur estrapolando l’elemento “magico” del racconto, mentre i classici elementi atti a suscitare meraviglia potrebbero rapire gli occhi di spettatori nella prima infanzia, lasciando all’adulto che “accompagna” il piacere di cogliere elementi estetici e contenuti emotivamente profondi.
In questa rubrica recensirò alcuni dei film di Hayao Miyazaki e di altri registi dello Studio Ghibli in ordine cronologico sparso, segnalando la fascia d’età consigliata per ogni pellicola e fornendo alcune brevi informazioni sulla trama e su altri dettagli tecnici (anno, regia, durata, ecc…). Per chi volesse saperne di più segnalo il sito ufficiale Studio Ghibli nella versione italiana.

(immagini: la locandina dello Studio Ghibli ed un fotogramma tratto da Nausicaa della valle del vento)