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Elemental

Lingua originaleinglese
Paese di produzioneStati Uniti d’America
Anno2023
Durata103 min
Genereanimazionecommediasentimentaleavventurafantastico
RegiaPeter Sohn
SoggettoPeter Sohn, John Hoberg, Kat Likkel, Brenda Hsueh
SceneggiaturaJohn Hoberg, Kat Likkel, Brenda Hsueh
ProduttoreDenise Ream
Casa di produzionePixar Animation Studios,
Walt Disney Pictures
FotografiaDavid Bianchi, Jean-Claude Kalache
MontaggioStephen Schaffer
MusicheThomas Newman

Nell’era dei live action e delle rivisitazioni Disney-Pixar ripropone una variante della storia d’amore tra personaggi apparentemente opposti

Elemental va ad inserirsi nell’ormai longeva tradizione dei film Disney-Pixar che non ce l’hanno fatta, o almeno non del tutto. Fagocitato dai mezzi produttivi continuamente cangianti dell’epoca post-covid, non esplode nelle sale (sempre più gigantesche, roboanti ma sparute, atomizzate nella provincia generica di un Ovest languente) ma rimane al loro interno per un tempo sufficientemente lungo da maturare e destare l’attenzione degli spettatori. Spettatori, s’intende, non necessariamente piccoli ma talvolta più interessati a comprendere la genesi del prodotto della storia stessa. Come già accaduto per Coco e Soul l’incanto visivo e pittorico è il nocciolo attorno a cui chi guarda riesce a dar senso alla propria visione. La resa dei personaggi del popolo del fuoco, supportato dall’accostamento di tecniche d’animazione diverse, ma forse anche della loro controparte, è vivida e insieme struggente, per l’intensa saturazione del colori ma anche per quel movimento ventoso che anima i volti, per la loro violenta precarietà.

Le architetture e le variabili riorganizzate che danno vita alle etnie “fortunate” , che prima dell’arrivo degli abitanti di fuoco convivevano armonicamente nella città, rimandano inevitabilmente alle megalopoli futuristiche e insieme impalpabili già viste in film come Zootropolis. In più si trova una sorta di concezione organica, forse figlia di una rinnovata sensibilità sull’ambiente e sui suoi ecosistemi, con alcune parziali incoerenze. La famiglia di Ember vive in un quartiere meno fragile, meno propenso all’autoorganizzazione estetica secondo linee curve e ampollose. Si accenna, forse anche grazie al doppiaggio un po’ forzato ma funzionale dei genitori (la madre nella versione italiana è Sierra Yilmaz, caratterista turca dalla verve grottesca cresciuta nel cinema di Ferzan Ozpetek), a una visione più ampia sulla condizione degli immigrati: accettati ma mai completamente integrati nella grande città, portatori di valori di condivisione e vicinanza ma, allo stesso tempo, di un conservatorismo a tratti soffocante.

In Elemental c’è tutto, forse troppo: il conflitto interrazziale e quello generazionale, la scoperta dei propri sogni e le prese di coscienza dolorose già viste in molte altre pellicole di coming of age, la storia d’amore più o meno impossibile osteggiata da nemici astratti e astringenti più che da un “cattivo” vero e proprio.

La descrizione dei caratteri tardoadolescenti prova a farsi sfumata e adulta ma, per rivolgersi a tutti, inciampa sulle dicotomiedi una protagonista incapace di dominare la sua rabbia e di un coprotagonista capace solo di empatia e serenità piangente. In tal senso, tra le strizzate d’occhio al pubblico più adulto, potrebbe inserirsi la bizzarra rappresentazione della famiglia “liberal” di lui, apparentemente molto più inclusiva rispetto alla nuova arrivata ma genuinamente ridicolizzata nei suoi eterni pianti quasi risolutori.

L’appropriazione di sé passa invece attraverso esplosioni, allagamenti e soprattutto raffronti diretti con il conflitto, in cui le pulsioni trovano il loro giusto e insieme scontato incanalarsi. Nonostante l’utilizzo di simbologie troppo scoperte, come il potere rasserenante dell’acqua e le nuove reazioni sperimentate attraverso la fusione dei caratteri principali (quel non essere più soltanto se stessi dopo l’abbraccio), il film sa farsi strada nell’immaginario attraverso sequenze descrittive e d’azione a tratti incantevoli: il vetro che prende forma nelle mani della ragazza ma soprattutto l’incursione notturna nell’orto botanico allagato, in cui la luce appare e scompare per preparare all’incanto e, poco dopo, al pericolo. La storia di Wade ed Ember si conclude con un finale conciliante per tutti, in cui nulla è realmente perduto ma in cui ogni scena caotica e intensa sembra perdersi in una brezza leggera e fumosa.

(età consigliata: dai 5 anni)

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80 Miyazaki – Studio Ghibli per genitori e figli

Dopo Fukushima: Hayao Miyazaki dona 300 milioni di yen per un parco giochi  (29/06/2015) - Vita.it

In occasione dell’ottantesimo compleanno di Hayao Myiazaki, nato il 5 gennaio del 1941, ripropongo un articolo già pubblicato sul sito www.filmtv.it nel 2016

In molti in Italia possono dire di aver scoperto i film di Hayao Miyazaki e degli altri registi dello Studio Ghibli in età adulta (o quasi), complice una tardiva distribuzione delle sue opere, inizialmente asservite alle esigenze “adattatrici” della Buena Vista e in seguito ridoppiate in modo fin troppo fedele alla lingua giapponese dalla Lucky Red. L’universo Ghibli è però in gran parte rivolto ad un pubblico in formazione, e guardare un film di Miyazaki insieme ai nostri figli, nipoti o alunni potrebbe rivelarsi un’eperienza interessante se sostenuta da quei “filtri”necessari a rendere fruibile ai bambini di oggi un tipo di animazione molto lontana dal loro modo di essere spetatori.

Lo Studio Ghibli (da Ghibli, vento caldo o scirocco, oppure riferimento all’aereo italiano della Regia Aeronautica utilizzato per entrare in nord Africa) apre i battenti nel 1985 ma è già del 1984 la realizzazione del primo lungometraggio Nausica della Valle del vento, storia post apocalittica dal chiaro orientamento ambientalista e pacifista. Il film è cupo, ricco di immagini suggestive, scontri e creature mostruose (gli insetti giganti che dominano la terra, estendendo ogni giorno di più la giungla tossica, ambiente in cui gli esseri umani non possono sopravvivere), dalla durata inconsueta di 2 ore. Il finale regala però apertura e speranza, coronando le gesta di una coraggiosa principessa che lotta contro le aberrazioni di quegli uomini che tentano, senza successo, di distruggere la giungla tossica in modi plateali e violenti. Nonostante la quasi totale assenza di donne tra i registi e gli ideatori di punta nello studio quasi tutti i film usciti successivamente mostrano personaggi femminili interessanti e sfaccettati, spesso forti e risoluti o comunque in procinto di scoprire il mondo ed esprimersi. Sono le bambine e le donne a venire a patti con un mondo simbolico inferocito nel loro coming of age, come accade alla protagonista de La città incantata, il film che nel 2001 ha resto estremamente popolare il Miyazaki regista e produttore in Italia e in Europa. Sono bambine, anche in età tenerissima, a comunicare con gli spiriti della natura superando la diffidenza e la paura, come accade ne Il mio vicino Totoro, nel 1988, distribuito nelle nostre sale con 20 anni di ritardo. 

La città incantata (2001): Trailer italiano

Nel mondo occidentale la distribuzione dei film dello studio è affidata alla Disney, ma la politica sui tagli si afferma immediatamente come molto rigida: dopo un insoddisfacente adattamento di Nausica da parte degli statunitensi Miyazaki vieta qualsiasi taglio o snaturamento dei film. Tali “migliorie”, del resto, erano volte unicamente a conferire un appeal commerciale e ad assicurare la vendibilità dei lungometraggi animati, non tanto a riparare i giovani spettatori da  eventuali contenuti conturbanti. Pur illustrando temi importanti come la crescita, la vecchiaia, la morte, l’interazione tra generazioni, avvalendosi di una grafica non sempre rassicurante (uno dei punti chiave della riconoscibilità degli autori Ghibli è la pressoché totale rinuncia al digitale) le opere Ghibli sembrano essere ugualmente contrassegnate  da un’estrema delicatezza nel trattare i temi affrontati, limitando o azzerando le immagini insinuanti e le allusioni di tipo sessuale che potrebbero essere non pienamente colte o analizzate dal pubblico infantile, garantendo una generale fruibilità estendibile anche alla prima infanzia. L’ostacolo vero, per i piccolissimi e anche per molti bambini in età scolare abituati ad un certo tipo di animazione (le serie ad episodi brevissimi, il ricorso continuo a scene d’azione e ad effetti sonori e visivi per destare l’attenzione), potrebbe risiedere piuttosto nella complessità della trama e delle caratterizzazioni, supportata da disegni stratificati ed evocativi in cui è possibile cogliere molti dettagli. Molti dei film prodotti dallo studio giapponese, dunque, possono essere apprezzati da fasce d’età diverse, ma non in modo uniforme. In storie di formazione e di adolescenza come Kiki: consegne a domicilio, per esempio, un pubblico di pochi anni più giovane della protagonista potrà identificarsi nelle sue peripezie, pur estrapolando l’elemento “magico” del racconto, mentre i classici elementi atti a suscitare meraviglia potrebbero rapire gli occhi di spettatori nella prima infanzia, lasciando all’adulto che “accompagna” il piacere di cogliere elementi estetici e contenuti emotivamente profondi.

Ancora più complesso sembra essere il lavoro di Isao Takahata, il vero e proprio “numero due” dello Studio. Come Miyazaki, autore di serie animate qualiConan, ragazzo del futuroe tra i registi della saga diLupin III, il regista, classe 1935, ha cominciato la propria carriera alla Toei Animation. Lo ricordiamo come autore di serie che tutt’ora rimangono ben impresse nell’immaginario dei bambini cresciuti negli anni ’70 e ’80 e fruite anche dalle successive generazioni per via delle numerose repliche Parliamo, soprattutto, di Heidi (1978) e Anna dai capelli rossi, entrambe tratte dalla letteratura occidentale. Come il collega, Takahata manifesta il desiderio di attingere da una cultura percepita come distante e in un certo senso anche ingombrante, ma riesce a farlo in maniera inedita, con i tratti realistici e sintetici dei suoi personaggi, tutti sottoposti al gioco del destino e alle incombenze di una vita che presenta più volte il proprio lato aspro. Talvolta i suoi protagonisti sembrano in grado di reagire, a volte invece non possono far altro che abbandonarsi alle circostanze, lasciando l’unica possibilità di redenzione al pubblico che guarda. Che è giovane, ma forse non più giovanissimo: dopo il bizzarro lungometraggio Panda, go, Panda! infatti Takahata realizza opere dominate da un rigore espressivo e morale molto forte, seppur venate, talvolta, di un’ironia dai toni adulti. Riappare la sessualizzazione dei personaggi, come per i procioni “mutaforme” di Pom Poko, ma anche i temi ecologisti ed anti-bellici si impongono in maniera più radicale. Dopo un continuo confronto con il reale e un processo attento di rielaborazione letteraria Takahata torna però ad occuparsi di un universo familiare tipicamente nipponico, con disegni ingentiliti da un’aura di sogno e di leggenda e con una delicatezza psicologica che svela la tragicità del mito e la sua connessione con il mondo reale: realizza, così, la sua opera più genuina con La storia della principessa splendente (2013).

Il film esce nello stesso anno di Fischia il vento, che annuncia l’addio di Miyazaki alla regia e prepara il terreno per uno “scioglimento” dello Studio Ghibli stesso. È del 2014 l’ultimo lungometraggio animato prodotto dallo studio, il romantico Quando c’era Marnie. Il film vede ancora una volta una bambina – quasi adolescente – come protagonista e racconta un’amicizia al femminile segnata dai temi della perdita, dell’isolamento e della commistione con un mondo immaginario. Hiromasa Yonebayashi, che aveva già diretto Arrietty (2010), limita in questa pellicola l’utilizzo dell’elemento fantastico per approfondire l’aspetto del romanzo di formazione, già presente anche nel “mondo in miniatura”degli esordi. Se insieme a Goro Myiazaki Yonebayashi sembra essere l’erede delle tematiche e della sensibilità Ghibli, tale speranza sembra essere smentita dalle dichiarazioni dello stesso, che poco tempo dopo l’uscita del suo secondo film dichiara di voler abbandonare lo Studio.

Lo stesso Miyazaki fa marcia indietro più tardi, dichiarando che lo Studio produrrà il suo primo film in CGI. Resterà agli spettatori l’ultima parola sulla trasformazione più inattesa, vista da alcuni come una sorta di tradimento della poetica visiva e non dello Studio Ghibli.

Di seguito, una filmografia parziale con un breve sommario e qualche indicazione, anch’essa parziale,  sulla fascia di età più adatta alla fruizione. La quasi totalità dei film proposti può essere visionata anche da un pubblico pre-scolare con la guida di un genitore ed alcuni accorgimenti per rendere la visione più “leggera” e partecipe.

“Pre-Ghibli” (film usciti prima dell’effettiva fondazione dello Studio)

Panda, Go, Panda! (1972), Isao Takahata

Il regista realizza il lungometraggio, diviso in due episodi di circa mezz’ora ciascuno, dopo la negazione dei diritti per adattare in forma animata le celeberrime Avventure di Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren. La sua piccola protagonista infatti si ispira a Pippi nell’aspetto (lunghe trecce rosse puntate verso l’alto) e nell’indipendenza, e particolarmente efficaci risultano i due protagonisti zoomorfi,ovvero il buffo ed enorme Papanda, somigliante a Totoro, e il tenero Pan. Le storie, tra ingenuità ed ecologia, mancano un po’ di coesione narrativa e presentano qualche sottile ambiguità (la bambina, orfana, “adotta” Papanda come suo padre e Pan come figlio), ma per i più piccoli resta l’energia colorata di disegni e canzone originale. (età consigliata : 3-6 anni)

Nausicaä della Valle del vento
(Kaze no tani no Naushika) 4 marzo 1984, Hayao Miyazaki

 Alcuni considerano il film pre-Ghibli, anche se molti dei collaboratori di Miyazaki lavoreranno in seguito nello Studio . Un’opera imponente, mastodontica nella durata, spietata e visionaria. La speranza per il futuro viene restituita da un’eroina dall’aura mitologica, una tra le figure più mature della filmografia di Miyazaki. Notevole colonna sonora, tra le prime realizzate da Joe Isaishi per lo Studio, che fonde l’elettronica jazzata anni ’80 alla musica contemporanea. (dai 7-8 anni e oltre)

Film Ghibli (dal 1985)

Laputa – Castello nel cielo
(Tenku no shiro Rapyuta) agosto 1986, Hayao Miyazaki

Ispirato dall’anime Conan, dello stesso Miyazaki, e a sua volta ispiratore de Il mistero della pietra azzurra, serie animata dei primi anni ’90, il lungometraggio riprende temi e personaggio della serie degli anni ’70 e ne migliora personaggi e scenografie, combinando il mondo apocalittico di Nausicaa con il mito di Atlantide (dai 6 anni).

Il mio vicino Totoro
(Tonari no Totoro) 1988, Hayao Miyazaki

Film che segna la nascita della “mascotte” dello Studio e ne sancisce anche il successo, favorendo poco più tardi l’esportazione dei lungometraggi Ghibli in territorio statunitense ed europeo.  Apparentemente dedicato ad un pubblico prettamente infantile , il film affronta in profondità temi come la crescita, simboleggiata dal ricorso alla fantasia per risolvere problemi, il distacco da un genitore (elemento autobiografico per il regista), il conflitto tra città e natura (dai 3 anni).

La tomba delle lucciole
(Hotaru no haka) 1988, Isao Takahata

Dolce e insieme dura come una pietra, la pellicola di Takahata racconta con crudezza di particolari e allegorie dal mondo animale la realtà terribile della guerra. Due fratelli affrontano le ristrettezze del dopoguerra nell’indifferenza degli adulti in una sorta di affresco neorealista animato (dai 12 anni e oltre: a causa della forte tragicità della trama si sconsiglia la visione ai bambini, soprattutto se facilmente impressionabili e non supportati dalla guida di un adulto).

Kiki – Consegne a domicilio
(Majo no takky bin) 1989, Hayao Miyazaki

Opera leggera e briosa, Kiki colpisce per la positività e la propositività  della protagonista, una streghetta tredicenne che deve svolgere un anno di praticantato in una città lontana dalla propria, incappando in più di una difficoltà e nella momentanea perdita dei poteri. Un vero e proprio inno all’indipendenza, femminile e non (dai 4 anni)

Pioggia di ricordi
(Omohide poro poro)1991, Isao Takahata

Un’impiegata ventisettenne prende una pausa dalla sua vita frenetica per un viaggio verso la campagna. I paesaggi incontaminati e l’incontro con la “se stessa di quinta elementare” la porteranno a riconsiderare in parte la sua esistenza e ad aprirsi a nuovi orizzonti emotivi (dai 10 anni, per il tono intimista e scarsamente “favolistico” della vicenda narrata)

Porco Rosso
(Kurenai no buta) 1992, Hayao Miyazaki

L’omaggio di Miyazaki all’aviazione italiana passa attraverso la storia di un pilota dal volto di maiale, che si prepara ad un terribile scontro nell’aria grazie all’aiuto di una giovane idraulica (dai 9-10 anni).

Pom Poko
(Heisei tanuki gassen Ponpoko) 1994, Isao Takahata

I procioni si ribellano all’espansione industriale  e combattono gli uomini studiandone le abitudini e assumendone la forma. Tagliente e bizzarra satira del mondo dei media e dello sviluppo incontrollato causato dalla crescente globalizzazione (dai 10 anni). 

I sospiri del mio cuore
(Mimi o sumaseba) 1995, Yoshifumi Kondo

Prematuramente scomparso, Kondo  affronta ancora una volta il tema della crescita e delle difficoltà affrontate nel portare avanti un progetto. Lo sguardo,incerto, è quello di una studentessa tredicenne che vive in una metropoli chiassosa e se ne isola grazie all’aiuto di bizzarri personaggi, trovando l’ispirazione per il suo primo romanzo. A guidarla c’è anche la forza e la determinazione del primo amore (dai 7 anni).

Principessa Mononoke
(Mononoke-hime) 1997, Hayao Miyazaki

Gli spiriti sofferenti della foresta lottano contro i soprusi degli uomini, trasformandosi in terribili demoni. A prendersi cura di loro c’è una principessa guerriera, affiancata dall’enorme madre-lupo e da un avventuriero colpito da una maledizione. Ambientato nel Giappone medievale e influenzato dalle visioni scintoiste, Mononoke è ancora una volta una parabola sul rispetto della natura (dagli 8 anni).

La città incantata
(Sen to Chihiro no kamikakushi) 2001, Hayao Miyazaki

Considerato il capolavoro dello Studio Ghibli, La città incantata ha segnato l’inizio di una seconda vita per le opere dello Studio, che da questo momento verranno sempre trasposte sul grande schermo e on paesi europei, tra cui l’Italia. Un mix tra antico e moderno, tra suggestioni spirituali e vissuti personali, il film racconta la storia di Chihiro, i cui genitori sono rimasti imprigionati in un terribile incantesimo. Per liberarli la bambina dovrà lavorare nelle terme degli spiriti e non dimenticare mai il proprio nome. Scenari affastellati e avvolti nel silenzio, figure spaventose ed enigmatiche e più di un pezzo della colonna sonora (sempre di Joe Isaishi) ancora nei ricordi degli spettatori (dai 7 anni).

La ricompensa del gatto
(Neko no ongaeshi) 2002, Hiroyuki Morita

Il piccolo felino sembra essere preso in grande considerazione in Giappone, e per la prima volta lo Studio Ghibli gli dedica un’intera pellicola, seppur “minore”. La studentessa imbranata Haru scoprirà qualcosa in più di se stessa passando attraverso il fantomatico mondo dei gatti, e persino trasformandosi in una di loro (dai 4 anni. Nonostante l’età “avanzata” della protagonista, il film è estremamente semplice e fruibile).

Il castello errante di Howl
(Hauru no ugoku shiro) 2004, Hayao Miyazaki

Miyazaki torna alla regia dopo solo due anni con un film dall’intenso impatto visivo ed emotivo. La “sartina” Sophie, in un’ipotetica città europea su cui si alzano le ombre minacciose della guerra, rimane vittima di un incantesimo che la rende vecchia dopo aver offeso la terribile Strega delle Lande. Ad aiutarla ci sarà l’affascinante mago Howl e un gruppo di scalcinati personaggi, tra cui il “fuocherello” Calcypher, che lei aiuterà a sua volta (dai 6-7 anni).

I racconti di Terramare
(Gedo senki) 2006, Goro Miyazaki

Il figlio di Hayao debutta alla regia con un film ambizioso, non ben accolto dalla critica. Da un romanzo fantasy statunitense si narra la storia di Arren, principe che vuole lottare contro la distruzione della propria civiltà (dai 6-7 anni).

Ponyo sulla scogliera
(Gake no ue no Ponyo) 2008, Hayao Miyazaki

Vagamente ispirata a La sirenetta, la vicenda di Ponyo si spoglia del carattere drammatico dell’originale per accentuare l’aspetto gioioso e vitale di un pesce – bambina, desiderosa di esplorare un mondo da cui proviene (il padre è uno stregone ex umano) e di fare amicizia. La calma celestiale e la successiva furia del mare, che si ribella alla partenza della piccola, sono resi da un’abile tecnica pittorica (dai 3 anni).

Arrietty – Il mondo segreto sotto il pavimento
(Karigurashi no Arrietty) 2010, Hiromasa Yonebayashi

Arrietty è una ragazzina alta pochi centimetri appartenente alla razza dei prendinprestito. Vive con i genitori in uno scantinato di campagna, e ben presto scopre che la casa sopra di loro ospita un ragazzo “umano” della sua stessa età. Debutto alla regia di Yonebayashi, classe 1973, già collaboratore di Miyazaki (dai 5-6 anni).

La collina dei papaveri
(Kokuriko-zaka kara) 2011, Goro Miyazaki

Una ragazza ed un ragazzo intrecciano una tenera amicizia sullo sfondo del Giappone del 1963, in attesa dei giochi olimpici che ridaranno luce internazionale al paese  (dai 7 anni).

La storia della principessa splendente
(Kaguya-hime no monogatari) 2013, Isao Takahata

Il tratto della pellicola sembra seguire l’andamento incostante, abbozzato e lieve di una penna fantasma. Da una famosa leggenda popolare nipponica la storia segue la vita sulla terra di una “pollicina” orientale, che rinasce da un tronco di bambù dopo essere scesa sulla terra dalla luna. Allevata con amore da due anziani, la bambina vive un’esistenza piena immersa nella quiete della natura fino a quando i genitori non si trasferiscono in città. Imprigionata in vesti sgargianti e contesa dalla brama di numerosi principi, “Gemma di Bambù”sperimenta il dolore della cattività imposta dalla vita sulla terra. Un’opera d’arte pittorica e una riflessione sul potere delle emozioni e della loro mancanza (la visione del film non è sconsigliata ai più piccoli, ma lo stile narrativo e visivo potrebbe causare una scarsa comprensione. Dai 9-10 anni)

Quando c’era Marnie
(Omoide no Mani) 2014, Hiromasa Yonebayashi

Anna deve riprendersi da problemi di salute e per farlo passa l’estate ad Okkaido, dagli zii. Qui, attratta da splendidi paesaggi lacustri, farà conoscenza con una misteriosa ragazza in abiti eleganti. La loro struggente amicizia ha radici in un doloroso passato (dai 7-8 anni).

introduzione parzialmente tratta dal mio blog Audiovisivi per piccoli)

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Lo straordinario mondo di Gumball

Titolo originaleThe Amazing World of Gumball
Paese Regno Unito,  Stati Uniti
AutoreBen Bocquelet
ProduttoreJoanna Beresford
MusicheBen LocketNeil Myers
StudioCartoon Network Development Studio Europe
1ª TV3 maggio 2011 – 24 giugno 2019
Episodi240 (completa)
Durata episodi11 min
Editore it.Warner Home Video (DVD st.1), Koch Media (DVD st.6)
Rete italianaCartoon NetworkBoing (Netflix)
1ª TV it.1 ottobre 2011 – 13 settembre 2019
Episodi 240 (completa)
Durata episodi11 minuti
The Amazing World of Gumball the Storm: Amazon.it: Sjursen-Lien, Kiernan,  Atlansky, Lesley, Fiorentino, Mike, Amin, Shadia, Bocquelet, Ben: Libri in  altre lingue

(dai 9 anni)

Palla di gomma, letteralmente. Il protagonista, gatto, sovverte ogni legge della fisica paratelevisiva, giocando animatamente sui luoghi comuni delle serie a cartoni.

L’animazione lineare dei caratteri principali, legati in un bizzarro nucleo familiare, incontra l’impossibile prospettiva dei luoghi fotografati, così come personaggi minori o secondari si stagliano su quegli stessi sfondi avanzando minacciosamente, giustapposizioni di tecniche grafico-pittoriche differenti. Gumball potrebbe apparire ad occhi adulti, mediamente distratti, come un gran pastrocchio. L’estetica diretta e buffonesca dei protagonisti, con i loro cromatismi tipici e accesi, costituisce di certo un motivo di attrattiva per spettatori piccolissimi, ma ogni segmento di quest’inusuale prodotto d’animazione sembra inoltrarsi sempre di più in una sorta di diorama stratificato, percorribile a più livelli e in modo assai più sconnesso e assai meno “pedagogico” di quanto accadesse con Peppa Pig. L’ambientazione è squisitamente americana e il fine ultimo di Gumball appare chiaramente quello di persuadere, di intrattenere, a tratti persino di blandire, senza rinunciare però a delle incrinature che oltrepassano la zona comfort degli ammiccamenti cartooneschi già sperimentata anche nel passato recente.

Ancora una volta, e qui gli autori sembrano inevitabilmente degli epigoni di molti altri predecessori, la famiglia presenta la classica composizione “a la Simpson”, con un padre obeso e di scarso comprendonio, coniglio rosa, una madre gatta blu come il suoi primogenito, intelligente e tuttofare così come la sorella minore, una quattrenne dal linguaggio incredibilmente ricco, il protagonista e un fratello-amico che impersona letteralmente e forse simbolicamente il classico pesce fuor d’acqua. Speci (emblema di razze?) e abilità per lo più intellettive si incrociano nella definizione dei personaggi principali: il contraltare dell’umorale protagonista, a tratti bilanciato dal fratello adottivo, ma ancor più del padre iperferino, coniglio rosa incredibilmente goffo ed inerme, sono infatti una madre multitasking che, a differenza di molte madri da sit-com, lavora, e una sorella troppo giovane per essere ciò che è. Lo slittamento in uno scenario grottesco, in cui tutto è baldanzosamente “iper”, potrebbe allora configurarsi come una parodia di certa narrazione satirica, pur essendo questa visibile in prodotti ben più adulti ed adultizzati. Senza l’esplicito riferimento a politica e società statunitense Gumball diventa allora molto più fruibile degli show da cui trae ispirazione, e libera la propria creatività nell’assembramento di personaggi fantasiosi e a volte poco rassicuranti, come nel caso del ragazzo senza mento, caratterizzato da un’enorme bocca fotografica e orrorifica, o come nel caso della ragazza dinosauro priva di parola, spesso monodimensionali e dal carattere primitivo, in fondo bonario e contrastante con l’aspetto esteriore. Nuvolette variopinte e bucce di banana animate, studenti letteralmente edibili ma immortali: tutto il carnevale di Gumball si attiva per dar vita a semplici e colorate avventure, nelle quali sembra però strisciare costantemente un senso di disagio, percepibile forse più da spettatori abbastanza maturi, mentre i piccoli si perdono gioiosamente nel non sense. Gli scenari-sfondo immobili distorcono ancor di più la ricerca di un’impossibile profondità di campo, alludendo probabilmente alla presenza di un mega contenitore di cui si disseminano indizi con il proseguire della serie; a questo punto nella semplicità delle storie si inseriscono elementi perturbanti e originali e persino le personalità dei protagonisti sembrano evolvere, pur restando confinate nell’archetipo della non crescita e del non-tempo.

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Dililì a Parigi

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Regista: Michel Ocelot
Genere: AnimazioneFamily
Anno: 2018
Paese: Francia, Belgio
Durata: 95 min
Data di uscita: 24 aprile 2019
Distribuzione: Movies Inspired 

Michel Ocelot torna a incantare con i suoi disegni bidimensionali, vivacizzati da una sovrapposizione tecnica e tematica, in una storia che interseca realtà e voli fantastici.

Ocelot, classe 1943, condivide parte della biografia artistica e professionale con molti animatori della sua generazione: alcune serie televisive negli anni ‘80 e ‘70 e poi l’approdo al lungometraggio, assai più tardivo, dopo numerosi viaggi ed esplorazioni non solo letterarie e prima di inusuali collaborazioni (il videoclip per Bjork Earth intruders). Nato vicino Nizza e in costante contatto con il sud del mondo, espleta le sue suggestioni artistiche e pittoriche con il primo film animato Kirikù e la strega Karabà, il cui successo darà vita a due seguiti, ma è riconosciuto anche per Azur e Asmar, fiaba che tenta la fusione tra la tradizione narrativa occidentale e quella mediorientale.

Le figure di Michel Ocelot sono, anche in quest’ultima opera, vere e proprie figure, sagome non materiche che si stagliano su scenografie quasi completamente immobili, animate solo dal passaggio degli esseri umani e non. Una bidimensionalità ricercata, che trascende il semplice rifiuto della computer grafica (già attiva e in crescita ai tempi del primo Kirikù) ma che inscrive piuttosto nell’anelito narrativo: i personaggi sono come le essenze in movimento estratte dalle pagine di un libro, da un quadro, da una pittura rupestre, vivificati dal soffio della parola, dal suono e dalle storie che hanno urgenza di mostrarci.

Con un movimento di macchina all’indietro scopriamo presto che l’Eden splendente di verde e di natura in cui si aggira la piccola Dililì, kanaka alle prese con una vita primitiva insieme agli adulti del suo villaggio, altro non è che un quadro vivente delimitato da una recinzione, al di là della quale si accalcano gli occhi curiosi del pubblico parigino. La protagonista è dunque l’attrice di una sorta di presepe vivente o meglio di uno zoo umano, forse un’aberrazione per i moderni, ma una volta uscita dal suo quadro vive un’esistenza assai inconsueta: è assistita, curata ed educata da una nota personalità socialista dell’epoca, la signora Louise Michel(siamo tra il 1889 e gli inizi del ‘900), restituita ai nostri occhi con tratti realistici direttamente traslati dalle fotografie in bianco e nero.

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La ragazzina, vestita di bianco e d’oro e opportunamente leziosa, con il suo delicato inchino e la sua presentazione vagamente ironica, è quindi una piccola donna curiosa ed attiva, desiderosa di partecipare alla vita del suo tempo. Per farlo trova un amico insolito, il cui agire in una trama strettamente realistica ci apparirebbe come sospetto: è il fattorino tardo adolescente Orel, dagli occhi di ghiaccio, genuinamente interessato all’amicizia di Dililì ma totalmente scevro da sentimenti morbosi e inadeguati alla sua giovanissima età.

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Insieme si troveranno coinvolti nel vortice di un giallo, collaboratori in un’indagine sui casi di misteriose sparizioni di ragazze giovanissime e bambine nella città di Parigi. È un vortice che necessita, almeno in parte, di un distacco dal disegno simil geroglifico che ricordiamo anche in Azur e Asmar: i volti di Orel e della bambina, sospinta nel carretto a due ruote, si animano e si incupiscono con dovizia di particolari, in una caratterizzazione che va oltre l’essenzialità perseguita altrove, e lo fanno in una città intatta e meravigliosa, miracolo d’arte e di architetture sia nei vicoli delle scene diurne che nelle grandi piazze e nella resa dei monumenti in notturna. Appare evidente l’utilizzo di immagini fotografiche accanto ad accenni di computer grafica, in veri e propri tour virtuali in una Parigi dal vero per la quale si potrebbe utilizzare in senso pieno e positivo la vecchia espressione denigratoria di “città da cartolina”. Si tratta però di una vocazione turistica nobile, di un vagheggiamento nostalgico che non stride con le accurate pitture animate degli interni, delle periferie e delle campagne “maledette”.

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Sarah Bernhardt

Appare cruciale, allora, anche l’utilizzo delle comparse e l’interazione appassionata e originale che i due hanno con gli intellettuali parigini dell’epoca: un giovanissimo Picasso abilmente caricaturizzato, così come i colleghi fauvisti, la raggiante e languida Sarah Bernhardt, la cantante d’opera Emma Calvè, vera e propria coprotagonista, che stupisce Dililì con un primo vero abbraccio, effusione ignota alla piccola. È proprio nel palazzo della splendida e altera diva che la realtà così vicina si trasfigura, prima in un’immensa piscina al chiuso illuminata da luci azzurre e poi in un’esplorazione delle fogne cittadine.

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(Sopra: la celebre scienziata Marie Curie, a sinistra, in una gif tratta dal film insieme a sua figlia, a destra in una foto)

C’è una parte della città, o forse dell’umanità, che fa il tifo per Dililì e per le ragazze scomparse e si coalizza armoniosamente intorno a lei, a tratti divertendola ed estasiandola con ripetuti, sovrabbondanti omaggi all’arte, alla letteratura, alla politica e alla storia. Sono tantissimi i personaggi citati, fino al punto che è quasi impossibile ricordarli tutti. Quest’umanità dipinta da colori poco ombreggiati, a misura dei bambini che guardano, si contrappone allora nettamente agli antagonisti, la società dei Maschi Maestri. Di giorno questi esseri si confondono tra uomini distinti vestiti di nero, quel nero così bizzarro per l’osservatrice Dililì, ma dopo una prima iniziazione vengono promossi con un vistoso anello al naso e hanno volti grotteschi, ingialliti, adunchi. Non sopportano le donne e le bambine, e il loro piano e le relative motivazioni atterriscono nella loro stolta assolutezza, scoperchiata e sconfitta in modo eroico da un connubio di umanità e visioni avveniristiche, come il gigantesco dirigibile che si staglia nel cielo blu, in partenza dalla giovane Torre Eiffel. I Maschi Bianchi, terribili e ridicoli insieme, hanno però appoggi anche ai “piani alti”, ad esempio tra le alte cariche della Polizia.

Inquietante è il loto trattamento delle bambine (e delle donne, rapite in passato) prigioniere nel mondo sotterraneo, costrette a muoversi a quattro zampe, accecate da un sacco nero che le riduce ad esseri larvali, impotenti, assoggettate ad un potente indottrinamento.

Dililì affronta la sfida per riappropriarsi anche un po’ di sé, della sua crescita incerta, degli sguardi pungenti dei suoi connazionali che la giudicano “troppo bianca” e dei francesi che la vedono invece “troppo nera”, riportando allo stesso tempo al centro il discorso su un cammino inesorabile della storia che forze occulte (ma non troppo) vorrebbero riportare insieme, cammino fatto di emancipazione femminile e dell’infanzia. Gli accenni cupi e inquietanti ai possibili risvolti della storia si disperdono, cautamente e in modo fluido, rendendo il film meno stratificato ma maggiormente fruibile per un pubblico di giovanissimi, per i quali resteranno negli occhi la pedalata collettiva delle bambine in cielo, verso i propri cari, e le variopinte coreografie finali, oltre alla guida di un’eroina vispa e spontanea, mai realmente dimentica del suo essere bambina. Ocelot resta dunque nei meandri del film morale, infondendo un sentore di speranza ai giovani spettatori in modo diretto e comprensibile, senza impantanarsi nel mero didascalismo.

(recensione presente anche su filmtv.it )

Voto: 7,5

Età consigliata: dai 6 anni

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Shrek 2

SHREK 2

 

 

 

 

 

Il seguito del fortunato Cartoon Dreamworks, dai tratti rivoluzionari, non stupisce ma risponde alle aspettative

Quando ci si trova davanti ad un immenso calderone favolistico e digitalizzato come Shrek (2) si desiste facilmente da ogni torpore pseudo analitico, per lasciarsi travolgere dalle comiche incalzanti che abbandonano la derisione epica del primo film. Il gioco di rimandi e familiarità comincia con l’ammiccare divertito e sarcastico al Regno di Lontano Lontano, un boulevard simil-hollywoodiano dalla tipica spazialità fintamente avvolgente. Un luogo adatto alle costruzioni ironiche, all’ansia decostruttiva di quei miti cartacei qui ancora più evanescenti, perché pixelati.

Lo splendore novello di uno Shrek umano dal volto quadratamente noto, e il suo eterno combattimento contro quella leziosa bellezza e “umanità”, incarnata dall’odiosa Fata Madrina “canterina” come nella peggiore delle tradizioni disneyane, e dal vuotissimo figlio di lei, Azzurro (Charming nella versione originale). Quei tratti insidiosi, quell’invadenza da spot in cui non possiamo fare a meno di riconoscere i frammenti chiassosi del jet set da bolle di sapone contrastano ancora una volta con la festa di note rivisitate, con l’universo retrospettivo del fantasy e delle sue eterne dinamiche: la locanda tra il western e l’assurdo frequentata dai secolari personaggi di sempre, tra cui un Capitan Uncino pianista sperimentale pericolosamente somigliante a Frank Zappa, ma soprattutto quel coacervo di sinuosità e buffa tenerezza costituita da un ispanico ed inedito Gatto con gli Stivali, che usa il suo stesso aspetto accattivante come arma contro gli “stolti” e oscilla tra la fanfaronaggine e l’affermazione di un’animalità riscoperta, autentica, antropomorfa in modo primigenio.

Lo stesso finale, ricondotto all’abilità da mattatori del Gatto e del vulcanico Ciuchino, fa esplodere quella pungente polvere di stelle e libera dal fittizio la risoluta Fiona e suo padre, restituendo loro una forma “interiore” apparentemente grottesca ma gustosamente armonica e libera. (recensione già pubblicata su cinemovie.info )

Titolo: Shrek 2 2

PRODUZIONE: USA

ANNO: 2004  

GENERE: Animazione

REGIA: Andrew Adamson, Kelly Asbury, Conrad Vernon

CAST: Shrek (Mike Myers – Renato Cecchetto), Ciuchino (Eddie Murphy – Nanni Baldini), Principessa Fiona (Cameron Diaz – Selvaggia Quattrini)

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Me contro Te: La vendetta del Signor S

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Gli youtuber per l’infanzia più noti esplorano le frontiere del fan – service, risultando ancora una volta parte di un ingranaggio ben confezionato ma che nulla aggiunge all’ormai sterminata produzione audiovisiva per ragazzi, puntando su scenari già ampiamente collaudati dai vecchi media

Nel 2014 i fidanzatini siciliani Sofia Scalia e Luigi Calagna (17 anni lei, 21 lui) aprono il loro canale Youtube. Vlog, ovvero finestra esperienziale sulla propria cameretta (letteralmente) senza alcuna pretesa di qualità tecnico-visiva né tantomeno contenutistica. I toni estetici, o meglio acustici, ricalcano già le modalità espressive di youtuber attivi e seguiti all’epoca: si urla anziché parlare, incuranti del fatto che l’audio possa essere regolato tranquillamente tramite le proprie casse, si discorre a ruota libera davanti ad una telecamera più o meno fissa. I contenuti, però, sono diversi da quelli nettamente autoreferenziali dei post-adolescenti sul tubo, né si avvicinano a quelli di coloro che tentano un approccio semi-professionale e sviluppano argomenti in forma discorsiva, a volte basandosi su un canovaccio scritto (ad esempio come i tantissimi recensori cinematografici e televisivi, sui quali varrebbe la pena aprire un capitolo a parte, in altra sede). I due ragazzi non si vergognano delle proprie attitudini allo scherzo puerile e alla risata svampita, e a poco a poco ne ricavano un “tema” attorno a cui costruire il canale e riempirlo di pubblicazioni sempre più assidue.
Tralasciando la graduale e poi sempre più esplosiva crescita del successo e dei fattori che realmente vi hanno contribuito, arriviamo ad oggi.

Quasi 6 anni dopo i due ragazzi, sotto il marchio Me contro te e con i diminutivi Sofì e Luì hanno il canale più seguito di Youtube Italia (4 milioni di iscritti) e sono riconosciuti come una sorta di rimpiazzo della vecchia televisione per bambini, dispersa in una decina di canali in chiaro e svariati altri a pagamento, tralasciando le varie piattaforme fornitrici di contenuti (Netflix e Amazon su tutte) ma pressoché prive di  divulgatori come lo furono i presentatori di programmi come Bim Bum Bam, l’Albero Azzurro, la Melevisione ecc…
Rassicurano, sebbene solo in parte, eserciti di genitori preoccupati di fronte all’autonomia mostrata dai figli nel maneggiare tablet e cellulari e nel vagare su Youtube (recente è l’introduzione di un’ulteriore applicazione che permette di selezionare contenuti e tempi di fruizione tra gli innumerevoli filmati presenti sulla piattaforma) per la quasi assoluta vacuità del racconto, dell’espressione e della proposizione di giochi ed esperimenti. Vacuità che somiglia ad un’inconsapevole innocenza, ma non vi si identifica.

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La storia attorno alla quale ruota il lungo(?)metraggio Me contro Te: La vendetta del Signor S non è altro che una meta – storia in cui i due protagonisti non recitano personaggi altri ma mettono in scena se stessi, con quell’estremizzazione di gesti e di linguaggio già ravvisata nei loro video, alienando definitivamente l’illusione di una rappresentazione naturale di sé. Così accade anche per i comprimari, tra cui alcuni già noti al loro pubblico come la vicina di casa amorevole ed impicciona, che ancor più dei caratteri principali sono corpi marionettistici, presi in prestito non tanto dalla già citata tv dei ragazzi quanto dall’universo fiction di telefilm e cartoni animati, caratterizzati da un vestiario di colori netti e da cadenze ispirate al doppiaggio per l’animazione.

In crisi e in spasmodica attesa dell’invito ad una premiazione che sembra non voler mai arrivare, i due non riescono a produrre nuovi video, non trovando nuove challenge da lanciare né nuovi prodotti da provare, secondo uno dei format più collaudati dal duo che consiste in uno spottone più o meno velato di giochi e passatempi vendibili. Il sempiterno nemico Signor S, dalla voce opportunamente metallica e dalla postura prevedibilmente misteriosa, sfrutta a suo favore i litigi e le incomprensioni dei due per ordire un piano eccessivo e rocambolesco: la funzione ricreativa dei filmati, studiati nei cromatismi e nei ritmi consapevolmente ipnotici per il loro pubblico, diventa allora un’arma per distruggerli in un ribaltamento gustoso e assurdo di prospettiva. Infatti il malvagio ha intenzione di pubblicizzare, tramite due cloni -robot dei due ragazzi che compariranno nei nuovi video, barattoli di un misterioso slime drogante che spinge i piccoli di tutto il mondo a giocare per alcuni minuti in maniera inebetita fino ad intristirsi, poiché il signor S avrà succhiato attraverso questi tutta l’energia vitale degli infanti.

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Il tutto si svolge in ambienti chiusi, atti a contenere furbamente l’imput avventuroso della storia, accennato e compresso prima dalle mura gialle e sovraccariche di della casa – stanza condivisa, poi dall’onnipresente inquadratura -cornice dei video in essa girati e infine in un sotterraneo apparentemente cupo, illuminato da sprazzi fluorescenti e cartooneschi.

Qui vengono imprigionati i due fidanzati, prima che la cattivissima assistente Perfidia  non compia un errore dietro l’altro e il finto villain Dottor Cattivius non si ricreda su di loro. Permangono gli stereotipi caratteriali dei personaggi, con una lei apparentemente più seria e istericamente perfettina, che si impegna per proporre soluzioni quasi sempre fallimentari, ed un lui pasticcione, incapace di trovare strade razionali ma incredibilmente vincente grazie al puro caso, con movenze mutuate dal Pippo disneyano e da altre numerose figure e figurine d’imbranato. A estremizzare questa goffaggine trionfante il già citato Cattivius, grasso e imbambolato come da copione e la stessa Perfidia, una sorta di Miss Dronio in carne ed ossa.

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Nell’unica esterna del film, dopo prove frustranti e soluzioni improvvisate, i protagonisti riescono finalmente a salire sul palco ambito e a neutralizzare cloni e nemici, ritirando il terribile slime dalle mani dei piccoli fans e producendosi in un’esibizione finale: si dichiara a gran voce che l’unione fa la forza, nonostante le scene raccontino, piuttosto, la vittoria di una fortuna sciocchina e volubile. Amplificando la loro aura, diffusa in uno scenario mondiale immaginario e mostrato solo attraverso claustrofobiche finestre social, lo strano oggetto filmico della durata di un’ora disvela i suoi punti di forza e di debolezza: da un lato le canzoni cucite addosso ai personaggi dal compositore e cantante di sigle televisive Giorgio Vanni, arricchite dall’immancabile autotune, dall’altra le incongruenze pesanti anche per un prodotto del genere e per il pubblico, talvolta addirittura prescolare, a cui è rivolto. La messa in scena dell’amore litigarello e l’affezione del pubblico infantile precocemente orientato nel seguirlo appaiono ad occhi adulti come programmatici, così come l’alimentazione del desiderio di smascheramento dell’ossessivo cattivo, ancora una volta frustrata, che non vince né perde mai, preservando la sua identità. Almeno fino al prossimo film.

 

Titolo: Me contro Te: La vendetta del Signor S

Regia: Gianluca Leuzzi

Produzione: Italia

Anno: 2019

Interpreti: Sofia Scalia, Luigi Calagna, Antonella Carone, Michele Savoia

Genere: commedia, avventura

Durata: 64 minuti

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Pinocchio

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Garrone restituisce una riproduzione fedele e insieme straniante delle pagine tardo-ottocentesche di Collodi, destando più di un dubbio sulla possibile etichetta di film per ragazzi

Dopo circa due anni di lavorazione e una ricerca accurata del protagonista bambino (Federico Ielapi, già visto in Quo Vado) Matteo Garrone dà vita al nuovo e atteso Pinocchio, la terza versione dopo l’acclamato sceneggiato anni ’70 a firma di Luigi Comencini e il poco ispirato tentativo di Roberto Benigni nel 2002.

Come per il precedente Il racconto dei racconti non basta il ricorso ad una fotografia livida, in lento ed inesorabile incupirsi, né il parlato cadenzato, altalenante e incerto a delineare i caratteri dei suoi protagonisti. L’incursione nell’universo favolistico e in un’irrealtà che non è solo deformazione psicologica ed estetica del reale si ispira abbastanza saldamente al testo originale, celeberrimo e forse per questo destinato a continue infedeltà adattive. Con perizia tecnica si tratteggia il volto e il corpo di un protagonista non del tutto umano, riuscendo a coglierne le espressioni legnose e insieme insperatamente vive, quasi sempre concentrate in una maschera di ostinazione e irrequietezza infantile.

A circondarlo, l’iperrealtà delle botteghe e delle strade rionali, la vivida senilità di volti e corpi, di casacche preziose e consunte in un’atmosfera che attraversa epoche e spazi con passo delicato e sognante: l’avventura si dipana in borghi con ben poche caratteristiche “moderne” ma inscritti più chiaramente in una sorta di post – medioevo fiabesco, inoltre il viaggio di formazione del protagonista si attarda in luoghi noti d’Italia anche geograficamente lontanissimi, alternando campi d’ulivi, prati immensi, città di sassi e un insieme variegato di cadenze regionali. Geppetto – Benigni compie abilmente la transizione da sguaiato burattino a tenero e fragile anziano, con accenti e movenze opportunamente sopra le righe e il richiamo tragicomico ad una decadenza fisica ed intellettiva che ben si amalgama allo stile registico. Resta quel retrogusto grottesco già esplorato altrove e declinato qui al tratteggio di paure e ossessioni infantili, soprattutto nelle ossa di legno scricchiolanti ad ogni inquadratura, nella scena del fuoco, che causa la mutilazione delle gambe di legno del protagonista o nei volti corrucciati, deformati e dipinti degli attori nani, chiamati ad impersonare i burattini di Mangiafuoco e il grillo parlante (il già attivo al cinema e in televisione Davide Marotta). Se nella direzione degli attori Garrone si allontana quasi sempre dall’uso di semplici “facce da strada”, prediligendo un cast di volti noti (Barbara Enrichi, in un cameo, e Ciro Petrone, il Pisellino di Gomorra) ed iper noti ( Benigni, Proietti, Ceccherini e Papaleo) sui quali si gioca almeno in parte un senso di riconoscibilità e di affezione, il racconto classico segue un’andatura solo apparentemente lineare.

 

Più volte è possibile notare elementi che rileggono pedissequamente il testo di Carlo Collodi, aiutati da una fotografia volutamente poco accesa: i capelli della fata Turchina e l’avvicendarsi delle età sulla sua figura, l’impiccagione di Pinocchio al Campo dei Miracoli, qui anticipata da una sequenza onirica dell’albero carico di monete dall’impattante potenza immaginifica, e soprattutto il ritorno del Pescecane. L’antro umido e cavernoso in cui Pinocchio finisce e dona un nuovo significato al suo agire sembra infatti il compendio all’esplorazione di un mondo cupo, tetro, in cui la speranza resta attaccata ad un filo sottilissimo e i denti dell’animale sono inquietanti ma stranamente arrotondate tagliole di passaggio. Non più l’enorme e quasi confortevole balena di disneyana memoria dunque, quanto un luogo semovente in cui si annidano tremori e angoscia, cenno ad una realtà esterna astringente. Il film aveva già disseminato di segnali sinistri le avventure del bambino di legno, offrendo un punto di vista obliquo rispetto al romanzo, mutuato forse dallo sguardo di spettatori contemporanei: in tal senso la violenza fisicamente ostentata del maestro non ha la valenza esortativa del libro ma resta fine a se stessa, segnale non isolato di un’età adulta sorda e non comunicante con l’infanzia e la prima adolescenza di cui Pinocchio si fa stereotipo. Adulti e ragazzi restano dunque distanti, se non con poche eccezioni rappresentate dall’iperumano puerile e insieme antico della fata, prima bambina e poi donna ma forse semplicemente “spirito” custode (Marine Vacht, da adulta), dal burbero ma umanissimo Mangiafuoco (Proietti) e, in modo non troppo consueto, da un Geppetto che dispensa amore e consigli con genuina ingenuità , finendo per sembrare l’accudito e non più l’accudente. Più di una volta l’uomo è infido, predatore, non tanto nella stolta figura del maestro quanto nell’iconico ghigno melenso dell’Omino di Burro (Nino Scardina) o nell’umanità – animalità derelitta del Gatto e della Volpe.

 

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Come accade per l’ipnotica lentezza del Pescecane, la cui dentatura lievemente smussata non riesce realmente ad atterrire chi guarda, le scelte stilistiche e la destinazione iniziale della storia lasciano traccia di un’opera accurata e godibile ma non troppo affilata nell’inoltrarsi tra le brutture del mondo trasfigurato dalla magia, pur nei lievi sommovimenti provocati da alcune scene in cui si insinuano interrogativi più che profonde e durature inquietudini. In tal senso, il film non sembra centrare un target preciso e a trasformarsi in un prodotto commerciale, rischiando di lasciare indifferenti giovani spettatori visivamente non troppo allenati (i cosiddetti “fanciulli”, i coetanei di Pinocchio o già di lì) o di costituire un sovraccarico emotivo e visivo per i piccolissimi. 

 

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Scheda

Titolo:  Pinocchio

Regia: Matteo Garrone

Lingua: Italiano, Inglese

Produzione; Italia, Francia, Gran Bretagna

Genere: fantastico, avventura

Anno: 2019

Durata: 125′

Soggetto: Carlo Collodi (tratto da Le avventure di un burattino, 1882)

Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Cecceherini

Scenografia: Dimitri Capuani

Fotografia: Nicolaj Bruel

Montaggio: Marco Spoletini

Musiche: Dario Marianelli

Costumi: Massimo Cantini Parrini

Trucco: Mark Coulier

Storyboard: Giuseppe Liotti

 

(Voto 7 +)

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Cercasi collaboratori

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Il sito “ebbiba i cattoni” cerca collaboratori. Genitori, insegnanti, persone interessate alla critica cinematografica – televisiva o ai prodotti audiovisivi per l’infanzia e la preadolescenza (rivolti ad un pubblico fino a 14 anni circa) sono invitati ad inviare articoli contattandomi tramite WordPress. Lo scopo è assicurare al blog almeno un articolo a settimana.

Gli articoli non devono essere troppo brevi o concentrati sulla trama del prodotto in questione (esistono già ottimi siti di informazione sul cinema e sulla tv per ragazzi), ma dovrebbero descrivere vari elementi come lo stile di disegno (se si tratta di animazione), la regia, la colonna sonora, le tematiche, i personaggi, ecc…

E’ possibile recensire anche dischi o libri, che siano però possibilmente correlati con prodotti audiovisivi (film, cartoni animati, serie tv, canali youtube, ecc…)

Grazie dell’attenzione

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Mary e il fiore della strega

Ipercromatica pellicola che si poggia sulle orme ben calcate dello Studio Ghibli e punto di partenza per nuove avventure

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A metà giugno nelle sale italiane esce come evento speciale Mary e il fior e della strega, iniziatore del neonato Studio Ponoc. Qualche giorno in più nei cinema rispetto a quelli riservati alle riedizioni di vecchi film Ghibli, ma un chiarissimo legame con il suo predecessore a partire dalla locandina, in cui una bambina dal volto paffuto e dall’espressione concentrata fissa lo spettatore a cavallo di una scopa.

La storia di Mary, ragazzina intorno ai dieci anni ospite in una sorta di pensione per le vacanze, segue l’andamento semplice di molti percorsi di scoperta e riscoperta di sé, con l’esplorazione di scenari e foreste magiche iniziata dalle curiose evoluzioni di un gatto. Mary scopre i “fiori blu” e lo strapparli provoca un momentaneo sconquasso nella natura e nella saldatura tra mondo reale e fantastico.

La bambina si trova costretta a divenire una strega, a crescere cioè in maniera inaspettata attraverso l’acquisizione di nuove sembianze, nuove strategie, una nuova identità. La bizzarria dei suoi insegnanti, così leziosi nel sottolinearle il suo essere un'”eletta”, sottende però malignità, esperimenti, desiderio di dominio che è tipico di un’età adulta virata al post-umano, o meglio al “disumano”. Con l’aiuto di un nuovo amico e dei legami con il passato, incisi in un vecchio libro, Mary riuscirà a sventare un piano malvagio e ad accettare che la “magia” della vita può assumere tratti più delicati, evanescenti, ma allo stesso tempo più sfumati e reali.

Volare ed essere i maghi più potenti del mondo, per poi tornare ad essere bambini che sognano e che accettano la natura irraggiungibile dei sogni stessi: è questo forse il nucleo tematico del film, che si svolge attorno all’incostante corpo dei desideri umani, mutevoli nel passaggio tra le stagioni della vita eppure solcati da una sorta di traccia netta, di linea infuocata ed invisibile.

L’infuocato colore dei capelli della protagonista, colore da strega (come sottolineato anche da altre fonti), l’incendio del flash back iniziale e i dettagli di paesaggi e figure si aprono alla vitalità cangiante del disegno, capace di far nascere dal nulla mostri fatti d’acqua, isole sospese in un cielo nuvoloso e irrorato dal tramonto, un’architettura futuristica e ariosa. Graficamente pieno, denso e straripante, Mary e ilfiore della strega incanta a tratti alternando il dinamismo delle battaglie, le lente metamorfosi (animali ed esseri umani sono vittime di esperimenti terribili ad opera della direttrice e del professore del collegio) e le scene in cui i sensi sembrano distendersi, sospesi nella promessa di mistero e sorpresa: il vento che accarezza la foresta, la sua foschia , il brillio vivo e placido dei fiori.

La visione appare però sovraccarica più che coinvolgente per l’eccesso di rimandi: il viso (specchio del carattere) volitivo di Mary, non ancora delicatamente adolescenziale come quello di Kiki (consegne a domicilio)in parte simile a quello di Mei, capricciosa eroina de Il mio vicino Totoro. l’iniziazione stregonesca avvenuta quasi per caso, il demiurgo felino(La ricompensa del gatto), lo smarrimento fisico ed emotivo ed il legame con un ragazzo, complesso e reciproco (La città incantata e Kiki, consegne a domicilio) e  l’ambientazione britannica e la narrazione tipicamente occidentale: Mary e il fiore della strega è ancora una volta ispirato ad un libro di una scrittrice inglese, La piccola scopa di Mary Stewart (1992). Ed il passaggio tra il pensionato noioso e retrò e la scuola di magia, con tanto di esercizi sulla metamorfosi, sembra alludere fin troppo chiaramente a J.K. Rowling e alla saga di Harry Potter, fonte d’ispirazione principale della letteratura per ragazzi a partire dagli anni ’90(il primo libro è stato però pubblicato successivamente a °La piccola scopa).

Infine, i presagi sinistri, resi visivamente con stile efficace ed estenuante: la guerra, lo spregio della natura e delle sue creature, l’apocalisse, il desiderio di dominio e la magia che da potenzialità affascinante si fa strumento incontrollato ed inquietante (Nausicaa della valle del vento, Laputa  ): un elenco interminabile di suggestioni, omaggi, sottotrame che appesantiscono l’opera e ne minano la grazia infantile e giocosa, pur presente, sfumandone l’immagine e l’anima  e rendendola innocua ed indecisa. Godibile nelle trame essenziali e ricco nei contenuti e nella resa visiva, il film soffre nel tentativo di reinventare un’idea originale pur non liberandosi dell’ispirazione,  e riapre il dibattito sulle possibili e più o meno legittime forme della mescolanza, delle citazioni del “già visto”, del pastiche di canoni che dovrebbero riprendere vita e plasmarsi in una nuova forma.

Dirige Yonebaiashi, già noto per film forse più virati all’introspezione e all’intimismo come Arrietty e Quando c’era Marnie, canto del cigno (definitivo?) dello Studio Ghibli nel 2014, incerto sui sentieri più grossolani dell’epica e dell’avventura ma forse proiettato verso il futuro di un nuovo Studio.

Titolo originale メアリと魔女の花
Mary to Majo no Hana
Lingua originale giapponese
Paese di produzione Giappone
Anno 2017
Durata 102 min
Genere animazione, fantastico, avventura
Regia Hiromasa Yonebayashi
Soggetto Mary Stewart
Sceneggiatura Riko Sakaguchi, Hiromasa Yonebayashi
Produttore Yoshiaki Nishimura
Casa di produzione Studio Ponoc
Musiche Takatsugu Muramatsu

(voto 6, 5)

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Gli incredibili- Una  “normale” famiglia di supereroi

Età consigliata: dai 6 anni

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Sinossi: Bob ed Helen sono una coppia di ex-supereroi, sposati e con tre figli che già manifestano i primi superpoteri. Da 15 anni il governo ha vietato loro di utilizzare i superpoteri, visto il malcontento e le incomprensioni che le loro eroiche azioni scatenavano tra la gente. Un giorno però una misteriosa ragazza gli chiede aiuto per sconfiggere un minaccioso robot fuori controllo…

Sceneggiatura: Brad Bird
Fotografia: Andrew Jimenez , Janet Lucroy
Musiche: Michael Giacchino
Montaggio: Stephen R. Schaffer
Anno: 2004 Nazione: Stati Uniti d’America
Distribuzione: Buena Vista Durata: 115′
Genere: animazione

(Da Centraldocinema)

Il film di Brad Bird coniuga i due plastici e voluminosi protagonisti come le atmosfere,  i tratti e i colori di più generi, secondo quella che sta quasi assumendo le caratteristiche di una “scuola” dell’animazione 3d. Al di là delle manovre prevedibili da action movie tradizionale, e oltre i toni da commedia “adulta” calibrati sulle seduttive dinamiche timbrico- verbali dei personaggi, come negli aggraziati siparietti familiari conditi di battibecchi decisamente poco disneiani, o nella scena in cui il protagonista Bob e l’ex collega uomo-ghiaccio si appostano nella volante in attesa di avvistare un pericolo, come ai tempi d’oro. I loro volti sono schizoidi, ferini, holliwoodianamente umani, e nei loro corpi si inscrive la parabola del divertimento classico a caccia di un problema. Quest'”oltre” si realizza nell’illusione vertiginosa di un movimento fluido a 360 gradi, nella possibilità rocambolesca di dominare lo spazio virtuale non attraverso l’irrisorietà del disegno, ma tramite la straordinaria realtà di una sorta di macchina da presa immaginaria, che compie giri impensabili attorno e sopra i grattacieli, nel cuore degli inseguimenti nella foresta, attraverso le pareti cristalline dei campi di forza emanati dalla supereroina in erba Violetta, nelle gommose evoluzioni del corpo incorporeo di sua madre. Attorno a questa affascinante, ma ormai consueta ubriacatura visiva serpeggia un’ironia impensabilmente malinconica e destrutturante, rivolta al tramonto esplosivo dell’eroismo e dei suoi cartacei feticci-persona, che si riscattano, più che nelle nuove e mirabolanti missioni, nella fantasia di un’esistenza “normale”.