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Red

La pubertà incontra la storia familiare attraverso rituali magici ed esplosive riflessioni

Titolo originaleTurning Red
Lingua originaleinglese
Paese di produzioneStati Uniti d’America
Anno2022
Durata99 min
Genereanimazionefantasticocommediaavventura
RegiaDomee Shi
SceneggiaturaDomee Shi, Julia Cho
ProduttoreLindsey Collins
Produttore esecutivoPete Docter
Casa di produzionePixar Animation StudiosWalt Disney Pictures
Distribuzione Disney+
MusicheSceneggiatura

In molti storcono il naso di fronte ai riadattamenti Pixar e Disney di questi ed altri decenni. La magia della fiaba trasfigurata, per necessità o per marketing, verrebbe spezzata dall’evidente linearità del protagonista e della sua mancata evoluzione rispetto ad un progetto di vita- Progetto che non mancava ad eroine ed eroi del passato millennio, pur nel tradimento adattativo. Chi era e chi sarà la Mulan, così diversa da quella della leggenda, o meglio: sarà chi è sempre stata o cambierà, come nei più classici coming of age. La Pixar, come spesso accade, non si affida alla fiaba né alla saudade per un tempo lontano mai realmente esistito ma dopo un rinnovato interesse nei confronti delle proprie produzioni si cala nella realtà del passato individuale di una dei suoi autori. Un passato non glorioso, affiancato ad una rievocazione storica recente da riscattare, ravvivandola però con l’ironia già radicata in molte pellicole. La regista sino canadese torna indietro di 20 anni, a quel 2002 in cui le preadolescenti grattavano goffamente la patina delle convenzioni, le abbracciavano e riemergevano dall’abisso con abiti sgargianti e improponibili. Si riappropria dell’estetica da polaroid e dell’ovattata era musicale  delle boyband, segnale di allarme nel passaggio all’adolescenza piena e feticcio da cui discostarsi gradualmente di fronte all’imminente ascesa del primo, vero e carnale interesse amoroso. La protagonista Mei Lin si presenta con una struttura disegnata con linee morbide, un abbigliamento volutamente antiquato rispetto a quello delle sue coetanee – persino rispetto a quello delle sue amiche, come lei “outsider” – e un’energia emotiva incontenibile che esplode al contatto con le rigide tradizioni di famiglia. Si muove al ritmo sincopato delle occidentalissime sonorità R’n’B di fine anni ‘90 – inizio 2000 ma allo stesso tempo risente di quelle trasformazioni psico-fisiche stilizzate care, forse, all’immaginario di anime e manga. Stelline negli occhi, flussi ed effetti fumosi che arricciano, allungano, cancellano il naso e allo stesso tempo scavano nei terreni più scivolosi dell’imbarazzo, nell’egoismo insito nella necessità di autoaffermazione e nelle piccole meschinità quotidiane.

Meilin con i capelli neri, prima della trasformazione in panda rosso

La storia di Meilin è soltanto sua, così personale e peculiare da tratteggiare con precisione un’età e la sua collocazione all’interno di un bizzarro e onirico rituale di famiglia. Il tenero ed enorme panda rosso in cui si trasforma rievoca, nel colore e nell’espressione, tuta una serie di rimandi scontati e più sottili, psicologici e storici. La rabbia e la seguente rassegnazione, non trovando pace, assumono le sembianze cartoonesche ed infiammate tanto vicine al piccolo personaggio di Inside Out, superandone la caratterizzazione. La deflagrazione e successiva riconciliazione passeranno allora per un’affastellamento peloso che comprime l’inquadratura, fattasi cupa. Il personaggio ha bisogno di crescere, ma non lo farà attraverso il tipico romanzo di formazione poiché cercherà di adattarsi al mondo ma, allo stesso tempo, di costruire per sé un angolo speciale e diverso da qualunque altro. La sottile carttiveria. I cedimenti e le altalene “ormonali” di una ragazza come le altre riescono allora a suggerire e a dipingere un essere umano del tutto originale, scontrandosi con il mondo alieno e allo stesso tempo conformista al suo interno rappresentato dalla madre.

Turning red racconta il cambiamento obbligato dell’adolescenza con toni apparentemente leggeri pur rivelando, a tratti, l’essenza turbolenta e fortemente drammatica dello stesso, suggerendo, senza alcun appesantimento didascalico, l’inusitata forza regressiva della repressione e la difficoltà della comunità di origine cinese nel difficile percorso ibrido tra “mantenimento” ed inclusione. Allo stesso tempo percorre una strada di disvelamento della psiche femminile in formazione, suggerendo con immagini giocose il flusso dei pensieri e l’affacciarsi simultaneo di sentimenti e descrivendo le contraddizioni dei primi veri legami tra ragazze. Con Red Domee-shi sembra sviluppare in forma narrativa e compiuta il piccolo e poetico corto “Bao”, in cui l’amore materno passava attraverso una bizzarra rivisitazione culinaria ed un inquietante istinto cannibalesco, simbolo della norma genitoriale che, incapace di autonormarsi, fagocita letteralmente i propri figli.

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Opopomoz

Manifesto italiano del film
<p class="has-drop-cap" value="<amp-fit-text layout="fixed-height" min-font-size="6" max-font-size="72" height="80">Nasce da una lezione di Lotte Reininger l'amore di Enzo D'alò per l'animazione, così come spiegato in questa lunga <a href="https://www.youtube.com/watch?v=SgVlzDrx88g&ab_channel=DarioMocciaChannel">intervista</a&gt;. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista napoletano trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo <em>La gabbianella e il gatto</em>. Non è così in <em>Opopomoz</em>, primo film animato diretto da D'Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul <a href="https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/film/opopomoz.htm&quot; data-type="URL" data-id="https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/film/opopomoz.htm">doppiaggio</a&gt;, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l'accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare "sfondo".Nasce da una lezione di Lotte Reininger l’amore di Enzo D’alò per l’animazione, così come spiegato in questa lunga intervista. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista napoletano trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo La gabbianella e il gatto. Non è così in Opopomoz, primo film animato diretto da D’Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul doppiaggio, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l’accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare “sfondo”.

Opopomoz” e una Napoli magica - Mar dei Sargassi
Un’immagine -bozza del film: la passeggiata delle due famiglie nella via dei presepi (S.Gregorio Armeno) a Napoli

Il piccolo Rocco, con l’aiuto di una dolce cuginetta, si inabissa nel luogo – non luogo per eccellenza per sfuggire alla percepita indifferenza dei suoi genitori, appena “investiti” dall’arrivo di un fratellino che sembra fagocitare le attenzioni di tutti, persino quelle dei lontani parenti. Il presepe, simbolo e fardello di una fede talvolta più mostrata che vissuta, ma anche oggetto d’arte minuziosa e ostinata come accade nelle vie centrali della vecchia Napoli, assume l’indicibile sembianza di mondo altro: è un nuovo luogo animato dalla magia, o forse persino dalla malìa blasfema di due diavoli cartooneschi e maligni che spingono il ragazzino ad invischiarsi in vicende più grandi di lui. Il presepe diventa, dunque, terreno di gioco in cui i personaggi, fino ad un momento prima ineluttabilmente immobili per volere dei grandi, prendono vita e raccontano le loro numerose ed interessanti storie. Il significato religioso, pur presente, appare dunque come un semplice spunto per narrare una vicenda umana ancora più vasta e insondabile come quella dell’amore-odio che lega bambini ad adulti, bambini a bambini. La mancata nascita di Gesù indica, forse troppo smaccatamente, la difettosa accettazione della nuova entrata in famiglia. L’arduo percorso di riconciliazione con i propri affetti e con parti nuove e più profonde di sé passa per incursioni metafisiche e simil-storiche attraverso varie tappe, scandite dal soul contaminato e sognante di Pino Daniele e dalle voci, non solo parlanti, di villain maestosi come Sua profondità /Peppe Barra.

Le pulsioni negative, ridicolizzate nella loro teatralità esplosiva e accostate al roboante mondo subterraneo, vengono così esorcizzate nel viaggio del giovane protagonista, sempre in ascolto del suo lato oscuro pur nell’andamento carezzevole del suo percorso.

Lingua originaleItaliano
Paese di produzioneItalia
Anno2003
Durata76 min
RegiaEnzo D’Alò
SoggettoEnzo D’Alò, Umberto Marino
SceneggiaturaEnzo D’Alò, Furio ScarpelliGiacomo Scarpelli
ProduttoreLuigi Musini e Roberto Cicutto
Casa di produzioneAlbachiara, Rai Cinema, DeAPlaneta
Distribuzione in italianoMikado Film
MontaggioSimona Paggi
MusichePino Daniele
ScenografiaMichel Fuzellier
Art directorAlessio Giurintano
Character designWalter Cavazzuti
AnimatoriStranemani
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Mulan

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Lingua originale
inglese
Paese di produzione
Stati Uniti d’America
Anno
1998
Durata
88 min
Genere
animazioneavventuracommediadrammaticostoricomusicale
Regia
Tony BancroftBarry Cook
Soggetto
Robert D. San Souci
Sceneggiatura
Rita HsiaoChris SandersPhilip LazebnikRaymond SingerEugenia Bostwick-Singer
Produttore
Pam Coats
Casa di produzione
Walt Disney Feature AnimationWalt Disney Animation Studios
Montaggio
Michael Kelly
Musiche
Jerry GoldsmithMatthew Wilder
Scenografia
Hans Bacher

“Non ci sono più principesse Disney caucasiche dal 1991”, affermava il personaggio di una fiction ormai storica[i] prima che le “congelate” Anna ed elsa segnassero il ritorno del rinascimento disney trasposto all’epoca Pixar, ma a ben vedere prima anche delle meno fortunate Rapunzel e Merida di The Brave.

Belle di Beauty and the beast era stata infatti  l’ultima principessa bianca “acquisita” per nozze regali della tradizione Disney, strappata a forza dalla favola reazionaria – come tutte –  di Perrault e calata in un universo fiabesco in cui riscattare il vissuto delle innumerevoli fanciulle in pericolo. Sebbene prima di Belle numerose eroine Disney avessero già mostrato, pur nella ristrettezza delle aspirazioni, un inaspettato cipiglio è innegabile che il periodo del cosiddetto “Rinascimento Disney”abbia segnato il ricorso ad un approccio al lungometraggio-cartoon modernista, incline all’ ironia e al rimodellarsi dei cosiddetti “modelli femminili”. Aveva sognato meravigliose avventure innalzandosi sulle ali dell’immaginazione, pur restando in parte confinata nello stereotipo della lettrice inattiva e coronando la sua storia nel trionfo della generosità nei confronti del padre, prima, e dell’amato, poi. Prima, Ariel de La sirenetta aveva abbandonato la casa subacquea e le regole paterne per l’esotico regno “all’asciutto”, pur sempre spinta dall’amore per un uomo. Dopo la fine dell’epoca dei grandi successi la Disney arrancava e tentava nuove strade nell’esplorazione di diverse etnie e contesti socio culturali (Pocahontas, Esmeralda de Il gobbo di Notre Dame e la non-principessa Greca Megara in Hercules) fino alla fine del decennio: nel 1998 i registi Tony Bancroft e Barry Cook si spostano in Cina, e attingendo all’ iconografia esotica il disegno muta e si fa meno classicheggiante, più espressionista .

I corpi appaiono scattanti, meno flessuosi, quasi ad anticipare con forza il disegno della Pixar e le sue sproporzioni espressive e vitali. Grandi le teste e gli occhi, pur ingentiliti dal taglio a mandorla, giganteggianti pance e volti che sembrano stagliarsi su un palcoscenico di antiche commedie latine. Mulan è esplorato alla leggenda cinese dell’eroina Hua Mulan[ii], trascritto in un poema e in numerose trasposizioni cinematografiche ma reso celebre solo grazie alla sua versione animata e velocizzata.

Aggirando il falso storico con un’abile mescolanza di elementi pittorici e un cromatismo inusuale gli animatori ambientano la storia in una Cina alla fine della dinastia Sui (nel 600 circa), periodo di invasione da parte degli Unni, ma allo stesso tempo non rinunciano alle cornici spettacolari antropiche e alla la natura cangiante e pacifica di foreste di bambù, anche innevate: compare infatti la Grande Muraglia, costruita diverso tempo dopo, e persino fuochi d’artificio, di mille anni più giovani.

In questi ambienti rocciosi e incontaminati, segnati dal passaggio dell’uomo che ne magnifica la maestosità, si snoda un’altra storia di formazione. La giovane Mulan è una ragazza maldestra, poco aggraziata e soprattutto “troppo magra”, che fallisce il test ordito dalla famiglia e da una caricaturale mezzana per valutarne la capacità di essere una buona moglie, e in seguito anche una buona “fattrice”. Imbellettata in abiti da cerimonia e sbiancata innaturalmente da un trucco che ne nasconde le fattezze, Mulan è così protagonista della scena dell’”iniziazione delle fanciulle” , che mette alla berlina secoli di tradizioni radicate non solo nell’estremo oriente. Si tratta di una sequenza veicolata da un siparietto ridanciano e chiassoso, ma con una controparte tetra sempre in agguato. Nella canzone “Riflesso”, affidata nella versione filmica alla cantante filippina Lea Salong e in quella commerciale ad un’esordiente Christina Aguilera, esplode in una malinconica protesta la voce della protagonista, il cui volto grazioso e infantile si scinde in un’evocativa lavatura: da un lato la maschera imbiancata e appesantita della desiderabilità convenzionale, ovvia ma potente allusione a tutte le maschere imposte o autoimposte che bambine e bambini cominciano ad indossare sul crinale dell’adolescenza, dall’altra il viso nudo, vivace, risoluto emerso dal rituale di purificazione. Ad accumulare  ulteriormente le prospettive del “riflesso” interviene la spada, simbolo famigliare di oppressione che deforma le proprie origini facendosi artefice della nuova vestizione di Mulan, non più futura sposa ma combattente.

Come narra la leggenda a cui è ispirata, la storia vede infatti Mulan prendere il posto del proprio padre, ormai anziano, tra gli uomini chiamati alla battaglia per difendere la Cina dall’imminente invasione Unna, omettendo il particolare della leggenda secondo cui Mulan avrebbe preso il nome (Fa Ping) di un fratello minore.

Non può non intervenire l’elemento magico, ancora una volta ammantato di ridicolo sotto forma del drago Mushu, uno spirito guida ovviamente pasticcione e in disgrazia che farà da eco alla goffaggine   della stessa Mulan, il cui sgraziato atteggiamento “en travesti” presenta tutti gli stereotipi del caso: finta voce grossa, camminata innaturale, prevedibili pudori come nella scena del rischioso disvelamento durante il bagno al lago.

Se la battaglia sulla neve con il nemico finale, un capo degli Unni dall’aspetto eccessivo e stilizzato al punto da stemperare la sua carica demoniaca ed inquietante (il colorito mortuario, gli occhi infuocati) corrisponde ad uno snodo essenziale nella narrazione, l’anima del film sembra però risiedere nella guerra contro lo sradicamento delle gabbie imposte dal genere, altalenante e arricchita da momenti ilari e inattesi. Il mascolino Li Shang, cantore di uno dei brani più energetici del film, oltre a non riuscire a plasmare in pieno i buffi e inadeguati guerrieri del suo accampamento, si ritrova a gestire una malcelata e ambigua affinità nei confronti del suo soldato più debole, in scene in cui gli sguardi tradiscono una crescente ammirazione per Ping/Mulan mista ad attrazione omoerotica.

Sarà lo stesso comandante ad accettare con maggior ritardo la scoperta della vera identità della ragazza, e solo dopo la creazione di uno stratagemma bellico ulteriore: in un edificio che ricorda molto la scintillante Città Proibita della dinastia Ming (altro slittamento storico ben studiato dagli animatori) Mulan affronterà un redivivo Shan Yu con l’aiuto dei suoi compari Yao, Chien Po e Ling, che per l’occasione ribalteranno il teorema del machismo vincente di cui la stessa Mulan si è rivestita adoperando una strategia ingannevole e “femminea” (si ripropone il motivo del travestitismo, questa volta in chiave comica). Ritorna ancora una volta il tema dell’autoaffermazione,  nella sua declinazione universale ma anche inaspettatamente femminile, con l’ingegno individuale supportato da spirito di squadra e acrobazie coreografiche, che abbandona il realismo come nella tradizione dei film d’arti marziali e si impone sull’ottusa esaltazione della prestazione meramente fisica e virile.

[i] Si tratta di una frase del personaggio Jenna Maroney, attrice comica e primadonna capricciosa dello show meta televisivo ideato da Tina Fey 30 Rock, in onda sulla NBC dal 2006 al 2013.

[ii]  Il poema La ballata di Mulan, che descrive la vicenda, è attribuito al filosofo Liang Tao ed è stato scritto presumibilmente nel VI secolo d.C.

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L’animazione che canta: Sing,Oceania, Trolls e Rock Dog a confronto (Continua)

(…Continua)

Con Rock Dog e Sing, seppur completamente diversi tra loro, gli autori entrano nel territorio ormai confortevole del talent show.

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La prima pellicola, coproduzione cino-americana diretta da Ash Brannon e basato su una graphic novel di Zheng Jun Tibetan Dog, appartiene al filone dei romanzi di formazione applicati a personaggi animali antropomorfi, in cui l’avventura del protagonista ha il sapore di un percorso squisitamente individuale seppur mai individualista. Come nella migliore tradizione disneyana infatti ha un alter ego buffo, grottesco   e ben conscio del suo ruolo di spalla nonostante gli eccessi superomistici. La tradizione antropomorfa dell’applicazione dell’animalità ai caratteri attribuisce tenacia e fedeltà al pastore tibetano, giovane e sognatore, capace di comporre melodie dalla facile presa e immerso quasi suo malgrado in un mondo di luci stroboscopiche e spiazzanti, una metropoli orientale ipermoderna in cui potremmo facilmente riconoscere Shangai, Honk Hong e anche tratti di Tokyo. L’amico produttore è invece un gatto, a suo modo “sognatore” ma con tratti di cinismo e opportunismo più accentuati.  L’adolescente aspirante rock-star si contrappone al sogno di tranquillità e continuità portato avanti da suo padre, che come la specie suggerisce è un mandriano di pecore. Anche questa volta la versione italiana si affida a voci note nel doppiaggio e nella resa dei pezzi originali, pur arricchendosi nella colonna sonora non originale di brani non troppo inflazionati nel genere animazione. L’inclinazione “rock” del giovane Bodi si esprime forse maggiormente attraverso brani celebri dei Foo Fighters e persino dei Radiohead, più che nelle creazioni originali.

Con Sing di Garth Jennings, uscito anch’esso nel 2016 (per la Illumination), si abbandonano i luoghi esotici di Rock Dog, la pennellata cupa delle montagne tibetane contrapposta alla luminosità della grande città e si abbandona anche il rock in senso stretto. L’ambiente è più “usuale”, ma non per un film d’animazione: viene ritratta un’immensa Los Angeles, fatta di palme e viali alberati in zone di lusso ma anche di quartieri modesti, di sordidi anfratti e fascinosi teatri in decadenza. Ogni luogo mostrato è volto ad introdurre e ad esplicitare vizi, virtù e tratti genuini dei personaggi coinvolti in quello che ha l’ambizione di essere un film corale.

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Il repertorio torna ad essere essenzialmente pop, senza eccessive punte di trash – qualcosa resta: si pensi all’ammiccante esibizione delle “conigliette” e a quanto la mancata traduzione giovi in fondo ad una maggiore fruibilità da parte del pubblico infantile. Dopo un’introduzione sui vari personaggi coinvolti e sull’idea che il protagonista trova per risollevarsi dalla bancarotta, il cuore del film sembra risiedere nelle numerose esibizioni dei protagonisti per il provino, tagliuzzate e montate freneticamente frustrando in modo sapiente l’eventuale affezione di chi guarda. Anche in questo caso la natura ferina risolleva le sorti del film costruendo una simulazione di casting che è un’alternativa gustosa a quelli originali. Infatti, se nel talent-reality di personaggi in carne ed ossa si ricerca spasmodicamente la risata mettendo all’indice i difetti degli “scrutinati”e  facendo anche leva su una reale disabilità canora, qui le caratteristiche fisiche degli animali rincorrono la gag senza però risultare squalificanti nei confronti del loro pur manipolato desiderio di esibirsi:  il bravo cantante giraffa viene allora “eliminato” solo per la fretta di Buster che non riesce a comunicare per via del suo lunghissimo collo, le rane si autosabotano per battibecchi emotivi, le veloci scoiattoline che parlano e comprendono solo il giapponese si dimostrano inaspettatamente tenaci.

Fuori dal contest i calamari danzanti, coreografi e insieme luminarie viventi dell’ambizioso progetto finale che regala momenti suggestivi e onirici alla pellicola, altrimenti trainata da una rappresentazione “terrena”.

Il koala Buster Moon è una figura che in parte potrebbe richiamare il gatto – produttore- musicista di Rock Dog ma più complessa, con un buon mix di cinismo e ingenuità. Lo domina un sogno d’infanzia dei più ricorrenti: onorare la memoria di suo padre riportando in auge il suo vecchio teatro.

Riempiono la scena i sospiri adolescenziali, declinati in varie accezioni: il gorilla Johnny è figlio di un malavitoso (e in molti hanno storto il naso per questa associazione) ma pensa solo a cantare, e sua è l’esibizione sulle note di Elton John; la timida elefantessa Meena possiede una voce angelica e cristallina che più volte le resta strozzata in gola, come vuole il più frequente dei cliché riguardo alla ragazza comune – leggi ; grassottella – che vuole “farcela”, supportata da una famiglia invadente e più che allargata che fa quasi traboccare lo schermo. E infine c’è Ash, l’istrice che canta in duo con un fidanzato presuntuoso che non viene scelto, rabbiosa e “riot girl” quanto basta per bilanciare la zuccherosità dei pezzi che vorrebbero affidarle, nel cui timbro arrochito si potrà riconoscere Scarlett Johansson (che ha pubblicato alcuni dischi all’apice della sua carriera da attrice). Il “talent” è però più variegato, e se l’impeto giovanile sembra trainante interessante è il tentativo di coinvolgere altre fasce d’età, di varia provenienza sociale e necessariamente etichettate anche dalla specie. La scrofa Rosita, con i suoi 25 chiassosi maialini, è una parodia efficace di un trito e asfissiante menage coniugale stereotipato ma ancora presente nelle grandi città e radicato in molte culture, in cui la parte femminile sopporta la routine, la fatica dei lavori domestici e soprattutto il silenzio assordante di un marito assente. Il suo numero con Gunther,maiale obeso ed effeminato, con la rivisitazione parziale delle liriche di un famoso pezzo di Taylor Swift,  le permetterà di riappropriarsi di quella parte sopita di se stessa, delle sue pulsioni e della sua identità annullata dal non-sguardo degli altri. Il topo Mike è un sassofonista e cantante fallito, dalle suadenti movenze da crooner anni ’50 – la sua canzone finale è, ovviamente, il testamento musicale di sinatra My Way – la cui aggressività verbale tradisce i trascorsi di una vita da strada. La criminalità più o meno organizzata e gli equivoci finiranno per distruggere in parte i sogni di gloria di Moon.

Il finale vedrà ricombaciare tutti i pezzi del mosaico in modo più o meno scontato, fondendo in modo conciliante e vagamente confuso aspettative di adulti e bambini. Mirabolante, sfarzoso e più complesso di a quanto sembri, Sing sembra operare così la fusione tra i due mondi dell’intrattenimento, con la sua ricerca di una godibilità semplice ma non semplicistica, il suo gusto per le allusioni e i dopi sensi, non necessariamente di natura sessuale o “scadenti” in un umorismo becero pur facendo leva su istinti e reazioni ferine, avvicinandosi in tal senso alla multi-animalità di Zootropolis. Resta, in fondo, quel senso da sovraccarico di emozioni e di citazioni, difficili da amalgamare e astringenti abbastanza da non lasciare al film una traccia originale, un’anima indipendente e una nuova interpretazione del concetto di colonna sonora.

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L’animazione che canta: Sing,Oceania, Trolls e Rock Dog a confronto

Nel primo Shrek (2001) la colonna sonora stessa nonché l’abbondare di momenti romanticamente “spezzati” irridevano la petulante – eppure altamente iconica – tradizione Disney di accompagnare ogni momento cruciale della narrazione con un commento musicale. Eppure il ricorso a temi aspiranti ad un posto nell’immaginario collettivo non sembra aver risparmiato nessuna delle grandi case di distribuzione di lungometraggi animati, pur con modalità differenti.

L’annata cinematografica 2016-17, non ancora conclusasi, ha visto alternarsi moltissimi titoli pronti a competere tra loro sul mercato dell’animazione. Come il già citato Shrek insegnava, la sfida maggiore non riguarda più il più o meno forzoso “trascinamento” di infanti nelle sale, quanto una tacita e rinnovata complicità degli adulti accompagnatori, immaginati non più come mere appendici robotizzate e riluttanti quanto come possibili interlocutori del discorso cinematografico. Genitori più attenti, o forse solo più preoccupati, da intrattenere con la promessa di un accennato rovello morale o più semplicemente con frammenti di uno spezzettato sogno proibito: il ritorno all’infanzia, mescolato con sprazzi di mode adolescenziali e “cheap thrills” musicali dal sapore vintage. Ed è forse proprio uno tra i titoli più recenti ad incarnare al meglio questo bizzarro connubio di generi ed aspettative: Sing di Garth Jennings prodotto dalla Illumination (costola della Universal che aprì i battenti nel 2010 con il celebre Cattivissimo me),  casa produttrice anche del recente Pets, colonizza occhi e orecchie per una manciata di secondi e sembra portare l’ibridazione tra fasce di riferimento oltre ogni aspettativa. Ma del film, per mere questioni cronologiche, parleremo più avanti.

Siamo oltre la perenne sfida distributiva tra i colossi Pixar e Dreamworks, dominanti per molti anni. A riguardo scrivono in molti: se la (Disney) Pixar costruisce il film partendo dalle trame e dall’idea di fondo (un romanzo di formazione, un viaggio, una trasformazione) , ben diverso è il caso della Dreamworks, che invece crea prima personaggi che “funzionano”per poi costruire intorno a loro la storia.

Non è ben chiaro quale sia l’approccio da seguire: se l’appoggiarsi ad uno o più personaggi portanti potrebbe far pensare ad una maggiore introspezione, si deve constatare che nella maggior parte dei casi l’idea di personaggio si fonda soprattutto sul disegno grafico, lo schizzo, la “figura”, che riesce a prendere corpo letteralmente solo con l’approfondirsi della trama. D’altra parte, sebbene la penuria di storie e l’incapacità in costante aumento di raccontarle possano rifugiarsi apparentemente nel mondo Pixar, talvolta l’accuratezza nel costruire il plot della casa rivela alcuni schematismi di fondo. Se la Pixar ricerca l’universale la Dreamworks ricorre piuttosto ad una serie di particolari accumulati e accumulabili, tesi a soddisfare la sete di esperienza audiovisiva degli spettatori e a cementare il legame generazionale annullando le distanze.

Ogni fiaba può essere narrata ricorrendo  a diversi piani di lettura: storie stratificate, anche solo superficialmente o ad livello più profondo, in cui il sensazionale del disegno e del tormentone onomatopeico uniti alla semplicità del racconto convincono i piccoli, mentre il doppio fondo (o doppio senso) delle battute ammicca ai grandi. Pare essere, in tal caso, emblematico anche il ricorso a dirompenti elementi della realtà trasfigurata in un mondo a misura d’animale, di giocattolo o di creatura, in cui a contare sembra essere la perizia descrittiva dei caratteri e delle manie dei protagonisti, in fondo così “umani” (come accade ai piccolissimi e basici Minions e agli animali domestici di Pets).

La sfida poggia però anche sulla capacità di creare un immaginario sonoro, assunto di fondamentale importanza nelle produzioni rivolte al mondo dell’infanzia e oltre. Tralasciando la questione annosa del doppiaggio dei dialoghi – che da molti anni ormai insegue un filone dagli esiti discutibili, sebbene forse non troppo avvertiti dal pubblico, di cui si parlerà poi – la canzone accompagna da sempre il percorso dei personaggi animati. Se nell’universo “non Disney” a dominare sembra essere il riferimento a sonorità preesistenti in grado di creare affezione con il pubblico che guarda nei Disney – Pixar prevale la costruzione di un percorso musicale originale, con canzoni che dovranno imporsi alle orecchie del grande pubblico grazie all’interconnessione con le storie. È vero anche nel caso di Oceania, dove la musica è il mezzo per raccontare una vicenda ben definita e apparentemente senza origine letteraria (come accadeva in The Brave). Dunque il romanzo di formazione e le tematiche pre-adolescenziali si fondono allo scenario esotico dipinto minuziosamente e all’iconica espressività dei caratteri e delle movenze, ma ad aprire il vero varco attraverso le acque infuriate è l’orchestrazione del pezzo intimista affidato a Moana /Vaiana, l’espressione vocale in crescendo che ribadisce l’innata concordanza tra voce e grazia, tra suono e natura. Una grazia in fieri, ancora grezza, come testimoni anche la scelta di affidare il personaggio – cantante ad una voce adolescenziale nel film (Auli Cravalho) e la promozione del pezzo How far I’ll go alla vocalità acerba di Alessia Cara, lontanissima dall’impostazione di Idina Menzel in Frozen.

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Lontani dal territorio Pixar e dall’ingenuo sbocciare delle sue protagoniste – la cui forza sembra modellata sulla quasi dimenticata capostipite Mulan, la prima vera principessa ribelle classe 1998 – ci si avventura, come già detto, nel noto. La fiaba dalle tinte gotiche di Trolls (DreamWorks, regia di Mike Michtell e Walt Dohmriprende, nonostante la fascinosa ambientazione e il tratto retrò nella rappresentazione del mondo dei mostri – i tragicomici Bergen – in particolare, molti pezzi “classici” degli anni ’70 – ’80, epoca in cui imperversavano i pupazzi dalle chiome fluo creati da Thomas Dam. Il cantare, riconoscibile, ritmato ed empatico non è più il doveroso ed extradiegetico accompagnamento per i pensieri dei protagonisti. Le feste cantate ed il musical della vita stessa sono un’azione reiterata e conclamata per la protagonista Poppy (doppiata dall’attrice e cantante Anna Kendrick, nota per Pitch Black ovvero l’High School Musical universitario), che salvo sporadiche invenzioni degli autori della colonna sonora esplora successi transgenerazionali. Ecco allora che le parole di True Color e di The sound of silence assumono nuove sfumature per chi ascolta, quasi come se le scene del film fossero state plasmate su strofe e liriche di successi pop assemblati con estrema efficacia. Oltre all’abbondanza di titoli – riconoscibili dagli adulti più che dai bambini – non finiscono i legami con il mondo musicale. Il protagonista maschile è doppiato da Justin Timberlake, che presta la sua Can’t Stop the feeling (tr ai pezzi più recenti), mentre la coprotagonista è affidata nel canto e nei dialoghi all’eclettica Zoeey Deshanel (mentre si “sdoppia” nella versione italiana). Non appare quindi troppo insensata la scelta di far impersonare Poppy e Branch alla notissima Elisa e al semi esordiente Bernabei, reduce da talent.

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In Trolls la musica più o meno contemporanea incontra l’universo favolistico e stempera in un universo di colori “shocking” il vago sentore sinistro della trama  (la lotta per la sopravvivenza dei trolls e la paura onnipresente di essere divorati dai propri nemici).

(Continua)

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Stelle sulla Terra

Il cinema a scuola, per la scuola o sulla scuola. Come potremo definire un film come Taare Zameen Par trascendendo il semplice valore cinematografico?  È certamente un possibile oggetto educativo, perché parla di scuola, di infanzia, di famiglie e soprattutto affronta un tema quasi sconosciuto alla cinematografia internazionale, quello della dislessia (Piccola parentesi: la legge sui disturbi specifici dell’apprendimento in Italia è arrivata tardi, solo nel 2010, gettando nel panico alcuni insegnanti e molti genitori, sostenitori del mantra “è solo una moda”). Il film indiano pone però gli adulti che guardano di fronte a più di un interrogativo: un film che espone in modo chiaro un problema e che propone una lettura “giusta” per esso, dovutamente emotiva, è necessariamente un film di qualità? E se non lo è del tutto fino a che punto possiamo abdicare alle nostre convinzioni e/o sensazioni estetiche e formali per proporlo come punto di partenza per una riflessione?

Stelle sulla terra nasce da un’industria, quella di Bollywood, che ancora oggi prospera e non troppo raramente si apre al giudizio del mondo. Se ne ravvisano, fin dalle prime scene, i dettami stilistici, pur calati in un ambiente modesto: una famiglia che potremmo definire “piccolo borghese”  – non si fa riferimento a caste o ad eventuali punizioni divine, probabilmente per assicurare al film anche un riscontro internazionale – vive nella più classica delle abitazioni, pur moderna, il più classico dei menage familiari. Il legame sentimentale tra i genitori emerge appena per lasciar spazio alle impressioni sul volto paterno, quelle di un “padre-padrone” che non accetta devianze o ostacoli. Abiti tradizionali, scuola privata, un pizzico di documentarismo che accompagna la prima parte del film e che si sfalda strada facendo. Nelle aule dove studia il piccolo Ishaan, di 8 anni, non c’è spazio per la creatività e l’iniziativa dei discenti, e i maestri assumono le sembianze di creature mitologiche che da noi sopravvivono a stento, magari in qualche liceo classico dalla “grande storia” o più probabilmente in qualche foto ingiallita degli anni ’50. Ishaan non riesce a leggere correttamente e a fare dei semplici calcoli e ciò è considerato dagli insegnanti molto preoccupante. In aggiunta, non gli vengono successi neppure negli ambiti in cui sembra eccellere, per esempio quando utilizza le proprie parole per fornire l’interpretazione di una poesia. Un giorno, al limite della frustrazione, scappa da scuola accompagnato da un commento musicale adeguato, sfiorando con gli occhi tutte le bellezze e le peculiarità della sua città, una città indiana. Quando però i genitori lo vengono a sapere e chiedono delucidazioni apprendono, con dolore, che il loro bambino ha delle difficoltà insormontabili, che lo costringeranno a studiare in un collegio. Al suo interno non troverà molte differenze con la vecchia scuola, fino a che un professore – mago – attore (la star Aamir Khan, qui mattatore efficace e regista) non arriverà con la sua dirompente carica di energia, mista ovviamente alla capacità di comprendere ogni rivolo della psiche infantile.

L’alienazione di Ishaan è resa, inizialmente, da soluzioni animate coloratissime, che lo portano a immaginare un mondo di astronavi e alieni con cui aggirare il giogo delle lettere e dei numeri. L’adulto positivo irrompe nell’immaginario di un gruppo classe annoiato ed emotivamente compresso (anche questo ben lontano da quanto si può osservare nelle nostre aule)presentandosi come deus ex machina, e fondendo l’istanza pedagogica di sottofondo al ben più preponderante stratagemma classico del cinema b-hollywoodiano. Si staglia sul resto dei personaggi come una sorta di supereroe, consolidando tra l’altro la discutibile e diffusa credenza delle potenzialità dell’uno contro tutti, del missionario che sbaraglia le barriere asfittiche di una società chiusa ermeticamente ai desideri dell’infanzia con la sola forza del cuore. I cenni alla metodologia utilizzata dal maestro per combattere gli ostacoli del bambino dislessico sono rari (si accenna al fatto che l’uomo sia a sua volta dislessico) per lo più confusi in un montaggio ben finalizzato che celebra una delle grandi protagoniste dell’opera bollywoodiana: la musica.

Onnipresente, di commento o a tratti semi-diegetica, la canzone indiana moderna sottolinea ogni snodo della storia con la consueta forza, lasciando solo in parte ai margini l’elemento coreografico e risultando il tratto più autentico e forse più riuscito della pellicola.

Al contrario del maestro Ram, gli alti adulti del film stazionano tra la macchietta e il tragico, resi anche pittoricamente dalle prime opere di Ishaan, che si scoprirà essere un talento dal ricco immaginario visivo. Stelle sulla terra si apre dunque, con la sua durata dilatatissima per i tempi occidentali, alla discussione e alla riflessione di  adulti e ragazzi, ma rimane il più delle volte invischiato negli stereotipi sulla società e sull’infanzia offerta dalla cinematografia globalizzata e commerciale, respingendo lo spettatore restio a confrontarsi con essa.

Titolo originale: Taare Zameen Par

Regia: Amir Kaan

Interpreti principali: Darsheel Rafaely, Amir Kaan

Paese di produzione: india

Durata: 165 minuti

Anno:2007

Musiche: Shankar Mahadevan

Rating: dai 6/7 anni 

(pubblicato su filmtv.it)

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Dischi: Ci vuole un fiore – Sergio Endrigo, 1974

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Risale a qualche tempo fa l’affermazione di Claudia Endrigo, figlia di Sergio, che  rivendicava il valore della musica di suo padre avulsa da un contesto prettamente infantile. È indubbio, infatti, che il cantautore istriano nato a Pola del 1933 sia conosciuto da molti contemporanei soprattutto per alcuni brani legati al mondo dell’infanzia. L’esempio più lampante sembra essere il brano Ci vuole un fiore, leit motiv incessante e persino abusato di generazioni di bambini dai primi anni ’70 ad oggi. Composta insieme a Gianni Rodari, autore del testo, la canzone è cadenzata da un ritmo marciante e ripetitivo, influenzato dall’arrangiamento di Luis Bacalov, e all’apparenza suona come una semplice e banale filastrocca che però nasconde ben altro. La cura della parte musicale è accompagnata da scelte mirate nei versi, che riprendendo se stessi si arricchiscono di immagini e significati, in quello che ad un ascolto più attento sembra essere un inno alla scoperta del mondo per il bambino che ascolta. Oltrepassate quelle fasi stizzose sella fanciullezza e dell’adolescenza ascoltare quel brano potrebbe rivelarsi profondamente diverso, soprattutto se preludio ad una riscoperta più consapevole ed esaustiva dell’opera di Sergio Endrigo dedicata all’infanzia.

Ci vuole un fiore appartiene ad un album che oggi potremmo definire come “concept”, realizzato nel 1974 con la collaborazione di Gianni Rodari,autore di tutti i testi, e Luis Bacalov. E’ l’ultimo disco dell’autore regalato all’universo dei più piccoli, e forse proprio per questo il più importante nella poetica e nella visione dell’età in formazione. A giochi sonori impreziositi dal coro di bambini sui mutamenti della forma canzone in Zucca Pelata si alternano veri e propri trattati educativi liberi e dirompenti, introdotti talvolta da una giovane voce narrante che fa da contrappunto alle liriche cantate dall’adulto a voce piena, venata variabilmente da una forte traccia malinconica a screziarla: Ho visto un prato racconta la bellezza e i colori di una natura negata ai ragazzi di città, mentre il “tema” tradizionalmente impartito nell’introduzione letta mirava ad una conoscenza sterile e acritica delle stagioni dell’anno.

Il coro infantile sembra fare eco a nuove idee nascenti come la partecipazione del discente all’esperienza educativa,  nate dalla contestazione giovanile e da nuove teorie pedagogiche di fine anni ’60. Ed è così che anche il parlato “liberamente tratto” da un’immaginaria e pedissequa lezione di grammatica offre lo spunto per parlare con pienezza de Le parole, ma emergono tracce di una pedagogia alternativa e partecipata anche in Mi ha fatto la mia mamma, dove si “scomoda”, velatamente, il sempiterno tema dell’origine della vita dileggiando le vulgate ancora in uso per spiegare ai bambini (la foglia di cavolo e la cicogna in primis). Si rilegge l’educazione acritica e nozionistica della storia (Napoleone) e della geografia (Un signore di Scandicci, che però parla d’altro), e ci si indigna al ritmo del beat sincopato del povero Bambino di gesso, vessato e plasmato a misura di adulto-marionetta.

Infine è eterea e animata, vividamente ispirata ad atmosfere barocche,  la conclusiva Non piangere, un brano per parlare, ascoltare e abbracciare anche metaforicamente i propri figli, in cui quel “non piangere mai più”, pur nell’inattuabilità del monito, suona come un invito alla forza, alla costruzione di un’indipendenza atta ad accogliere la bellezza del mondo e le sue sfumature.

scheda del disco:

Titolo: Ci vuole un fiore

Artista: Sergio Endrigo

Anno: 1974

Paese: Italia

Casa di produzione: Ricordi

Tracce

Lato A
  1. Ci vuole un fiore – 3:37 (testo: Gianni Rodari – musica: Luis Enriquez Bacalov, Sergio Endrigo; edizioni musicali Jubal, Noah’s Ark)
  2. Un signore di Scandicci – 2:55 (testo: Gianni Rodari – musica: Luis Enriquez Bacalov, Sergio Endrigo; edizioni musicali Jubal, Noah’s Ark)
  3. Napoleone – 4:05 (testo: Gianni Rodari – musica: Luis Enriquez Bacalov, Sergio Endrigo; edizioni musicali Jubal, Noah’s Ark)
  4. Zucca pelata – 2:35 (testo: Gianni Rodari – musica: Luis Enriquez Bacalov, Sergio Endrigo; edizioni musicali Jubal, Noah’s Ark)
Lato B
  1. Mi ha fatto la mia mamma – 2:38 (testo: Gianni Rodari – musica: Luis Enriquez Bacalov, Sergio Endrigo; edizioni musicali Jubal, Noah’s Ark)
  2. Ho visto un prato – 2:45 (testo: Gianni Rodari – musica: Luis Enriquez Bacalov, Sergio Endrigo; edizioni musicali Jubal, Noah’s Ark)
  3. Le parole – 2:35 (testo: Gianni Rodari – musica: Luis Enriquez Bacalov, Sergio Endrigo; edizioni musicali Jubal, Noah’s Ark)
  4. Il bambino di gesso – 2:00 (testo: Gianni Rodari – musica: Luis Enriquez Bacalov, Sergio Endrigo; edizioni musicali Jubal, Noah’s Ark)
  5. Non piangere – 3:00 (testo: Gianni Rodari – musica: Luis Enriquez Bacalov, Sergio Endrigo; edizioni musicali Jubal, Noah’s Ark)

Formazione